di Matteo Gallo
Uomo di diritto e di politica. Studi classici tra il liceo Tasso di Salerno e l’istituto cattolico San Leone Magno di Roma, laurea in giurisprudenza alla Sapienza. Deputato democristiano per la prima volta a soli ventisette anni e da allora fino a quando non ne avrà ancora compiuti quaranta, al termine della undicesima e sua terza legislatura. Di carattere mite e riservato, lascia dire di sé tutto (o quasi) all’esercizio limpido della parola, all’inventiva fulminea di una riposta capace di configurare brillanti soluzioni di senso, analisi e prospettiva alternando accenti tranchant ad altri ben più arrotondati. Marito e padre innamorato di Vincenzo e Caterina, entrambi non ancora trentenni, avvocati e destinatari del dono prezioso del nome di battesimo dei nonni paterni. Titolare di un’orazione elegante, intessuta di valori cristiani e repubblicani che bene si accorda con una riflessione che spazia dal codice penale e civile alla codifica dell’agire privato in campo pubblico. Dalla Carta costituzionale alle carte processuali, a migliaia dentro faldoni archiviati nel suo studio, in pieno centro cittadino e con vista sull’ex palazzo del tribunale. Guglielmo Scarlato, sessantasei anni, avvocato di prestigio nazionale, è da sempre una figura di riferimento di quella nobile arte tanto amata e vissuta e pensata dagli antichi maestri di sapienza. La bussola della sua esistenza si chiama formazione. E formazione, per lui, figlio di Vincenzo Scarlato, politico Dc di alto rango tra gli anni ‘60 e ‘80, cinque volte parlamentare e più volte sottosegretario di Stato, sindaco di Scafati con appena trentasette primavere, vuol dire una cosa sola: studiare. «Mi sono formato sui libri frequentando solo in un tempo successivo il terreno della pratica. Naturalmente riconosco alle due esperienze una dimensione sinergica, il valore e la realtà di un impatto importante sulla ‘costruzione’ dell’individuo. Ma lo studio, per me, ha il primato sulla pratica».
Avvocato Scarlato, lei è cresciuto alla cattedra politica di suo padre Vincenzo. Che allievo è stato?
«Un allievo degenere. Mio padre è stato un totus politicus; io, invece, ho coltivato mille interessi e la mia passione per la politica è stata incostante, e forse non particolarmente feconda».
Quali le sue passioni oltre alla politica?
«Naturalmente l’avvocatura. E poi lo sport: da giovane sono stato un nuotatore agonista, ora lo sono della domenica. Accanto a queste due passioni devo necessariamente inserire il cinema, la letteratura e soprattutto gli amici: la passione dello stare insieme alle persone amiche, talvolta difficilmente coniugabile con la politica, mi appartiene nel profondo».
La scelta della Dc nasce nell’atmosfera familiare ma naturalmente non sarebbe stata automatica se lei non avesse percepito, dentro di sé, un’adesione reale e spirituale ai valori democratico cristiani.
«Sono un credente e un praticante. Fin da giovanissimo avvertivo l’importanza di un partito con solidi e profondi riferimenti cristiani ma che, al contempo, fosse aperto anche al contributo dei non credenti. Un partito esattamente come la Democrazia cristiana, che nel dopoguerra diede un contributo essenziale per la ripresa del nostro Paese creando un tessuto unitario in una società che si presentava slabbrata. L’Italia, da quando non c’è più la Democrazia cristiana, e più in generale da quando mancano i grandi partiti tradizionali, è incapace di costruire coesione sociale».
I suoi maestri nella vita e in politica.
«Esistono nella vita delle persone fondamentali educatori che sono i genitori e i nonni. Per quanto mio padre sia stato un ispiratore, un maestro nella vita e in politica, la valenza educativa più forte l’ha avuta mia madre Caterina. Una donna più serena e meno complessa di mio padre. Ho vissuto mia madre come colei che aiutava a superare i traumi; mio padre come colui il quale li condivideva con me».
Il diritto non ammette dubbi, la politica sì: un bel problema per lei…
«Il diritto è lo strumento che serve a superare i dubbi; a riconoscere l’esistenza del dubbio e trovare una risposta di fronte ad esso. Mi considero un dubbioso, perfino un dilemmatico. Avevo bisogno di uno strumento sofisticato, cerebrale, per superare i miei dubbi ed evitare di restare fermo ai bivi dell’esistenza, che naturalmente si sono presentati in più occasioni».
Parlamentare a soli ventisette anni: un primato ma anche una responsabilità.
«Ho vissuto quella prima elezione alla Camera con entusiasmo ma anche con un immediato senso di inadeguatezza. Mi dedicai prontamente allo studio così da farmi perdonare per una fortuna che non meritavo e, allo stesso tempo, per incontrare sentimenti di condivisione nelle persone che avrebbero potuto tacitamente rimproverarmi di un successo che sicuramente veniva da meriti altrui».
Allora il dibattito politico aveva grandi oratori. Un altro tempo, un’altra politica?
«Ci riferiamo a un tempo nel quale la politica aveva tra i suoi obiettivi quello di educare. Nel dopoguerra esisteva un Paese che si alfabetizzava e che iniziava anche a conoscere i nuovi codici della democrazia parlamentare. Quegli uomini politici, talvolta con linguaggio concettoso, talvolta con un linguaggio accessibile, cercavano di prendere per mano i militanti e i cittadini con l’intento di aiutarli a condividere i nuovi percorsi della democrazia. Oggi la politica è altro. E’ comunicazione immediata. E’ coinvolgimento in una emozione furiosa. Fondamentalmente è tifo che si risolve in uno scambio di sfuriate. Una volta la politica ricorreva agli strumenti della persuasione; oggi ricorre alla invettiva».
A 94 anni è venuto a mancare Ciriaco De Mita, protagonista indiscusso della politica italiana e che lei, da parlamentare, nel corso della decima legislatura, ha avuto come presidente del Consiglio.
«De Mita era un formidabile ragionatore. Tanto formidabile da poter essere inafferrabile, per l’uditorio, nelle vette che tentava di raggiungere. Nel contempo era anche un uomo pratico, una espressione alta di quel realismo politico che gli ha consentito di raggiungere importanti risultati. Pensava a obiettivi lontani, a orizzonti spaziosi ma anche alle esigenze quotidiane della politica. Queste due cose convivevano in lui. Era inoltre un politico duro, risoluto, capace di inenarrabili sfuriate, consapevole dei limiti e della difficoltà di fare azione politica e propagandistica nel Mezzogiorno. La sua eredità si sente e rimarrà per sempre».
De Mita e suo padre Vincenzo avevano sette anni di differenza e hanno condiviso una storia importante nella Dc.
«De Mita ha avuto un rapporto profondissimo e complesso con mio padre. Sono cresciuti insieme nella sinistra di base della Dc e la loro rottura nacque a seguito del trasferimento dell’insediamento Fiat dalla Piana del Sele a Grottaminarda. Ne seguirono proteste, che la cronaca del tempo definirà come i “moti popolari” di Eboli, alle quali prese parte anche mio padre nel tentativo di incanalarle politicamente evitando che si risolvessero in deflagrazioni di piazza piene di tensione. Il trasferimento altrove dell’iniziativa industriale, che avrebbe dovuto rilanciare invece quella parte di territorio, rappresentò un momento di lacerazione del loro rapporto politico; mentre quello umano non fu mai del tutto compromesso. Con gli anni, e molto lentamente, quel rapporto si aggiustò. De Mita, quando mio padre era già scomparso, ebbe sempre a dirmi che “anche quando non siamo stati insieme, mai siami stati contro”. Le sue parole furono per me importanti perché la relazione politica e umana tra i due, condizionata con tutta evidenza da quell’avvenimento, poteva aver rappresentato uno strazio interiore per mio padre. Aver capito invece che c’era stato un recupero, fu elemento di consolazione».
Perché decise di non candidarsi più al termine della sua terza legislatura nel ‘94?
«Avevo già espresso quella intenzione all’indomani delle elezioni del 1992. Mi ero accorto che c’era una degenerazione corruttiva e il tentativo che volli fare, francamente troppo ambizioso, fu quello di dire: “Non voglio accodarmi a un modello sbagliato e, non candidandomi, lancio un segnale”. Inoltre, avevo partecipato ai referendum sulla riforma del sistema elettorale promossi da Mario Segni e non condivisi la sua uscita dalla Dc. Ritenevo, al contrario, che avrebbe potuto diventarne il segretario e concorrere dall’interno a un processo di purificazione. La sua andata via dal partito mi parve testimonianza di un tornante politico che non andava nella direzione da me sperata».
Entriamo negli anni di Tangentopoli: una stagione destinata a cambiare la vita politica italiana e di molti suoi protagonisti.
«L’errore, sia storiografico che giudiziario, è stato quello di trasformare l’analisi di comportamenti individuali nel giudizio liquidatorio di un sistema. Questo errore ha finito per risparmiare sentenze esemplari a chi aveva responsabilità individuali e per liquidare un sistema che non aveva responsabilità corali. Dal punto di vista tecnico è stata una inchiesta frutto della intelligenza e dell’acume investigativo di magistrati di prim’ordine. Sul piano tecnico-giuridico parliamo, invece, di una inchiesta che oggi non si sarebbe potuta fare perché basata sull’uso improprio del nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore nel 1989: tutta la giurisprudenza che si è consolidata nel tempo ha fissato dei limiti all’uso smodato della custodia cautelare, in quel tempo utilizzata come strumento di pressione per ottenere rivelazioni, collaborazioni, non sempre sincere oltretutto. Complessivamente si debordò con la delegittimazione della classe politica in carica, la gogna mediatica e la rabbia di una opinione pubblica resa inferocita dai mezzi di informazione che cavalcarono la tigre. Fu un modo inappropriato di gestire con la partita giudiziaria dei conflitti non giudiziari ma politici. La storia di quei processi ci dice che solo una parte circoscritta venne condannata. C’è stato, senza dubbio, un ricorso a forme di populismo giudiziario. Questo francamente oggi non sarebbe stato possibile e, se pure fosse avvenuto, avrebbe avuto forme di sanzione più acuta nel contesto degli organi giudiziari internazionali».
La politica si arrese?
«La politica si mostrò debole perché lo era. Fosse stata forte, avrebbe riformato se stessa isolando le mele marce e mettendo nelle condizioni coloro i quali non avevano nulla da farsi perdonare di ripartire».
Tangentopoli cosa (ci) ha insegnato?
«Sono convinto che la misericordia debba caratterizzare l’azione giudiziaria. Un giudizio aritmetico ignora la fragilità dell’uomo e, ignorandola, finisce per essere un giudizio che schiaccia e non riabilita. E’ evidente, detto questo, che da Tangentopoli in poi tutte le incomprensioni che hanno caratterizzato il rapporto tra politica e giustizia non sono state risolte: in alcuni casi restano esplicite, in altri latenti. I tentativi di riforma rincorrono i risultati elettorali ma il diritto deve essere coerente e rispondere a un disegno; non si possono fare riforme per obbedire a un bisogno istantaneo, che naturalmente non può essere stabile. Dai primi anni Novanta assistiamo a una sorta di ‘perenne emergenza’, per usare il titolo di un libro di Sergio Moccia, grande maestro del diritto penale italiano. Una legislazione fatta per rivendicare un bisogno emotivo è una legislazione che resiste fino a quando resiste quel bisogno ma che poi, quando passa, rivela i propri limiti. Dobbiamo invece tornare a una produzione legislativa che abbia una sua stabilità».
Tangentopoli salernitana: il suo giudizio?
La ‘stagione dei sindaci’ fu uno degli effetti della delegittimazione dei partiti.
«La stagione dei sindaci è nata per l’inadeguatezza della politica nazionale non solo a risolvere i problemi, ma ad avere una interazione forte con i cittadini, i quali nella Prima Repubblica erano abituati ad un rapporto strettissimo con i propri parlamentari. Questa condizione di dialogo aperto e continuo, di vicinanza, determinava relazioni umane, prima ancora che politiche, di una forza e di una profondità che oggi non si riesce a immaginare. Quel meccanismo di “trasmissione politica” è stato trovato nei sindaci. Non c’era altro che avesse meglio di loro la caratteristica di essere prossimo; nel senso cristiano della parola».
A Salerno la stagione dei sindaci segna l’inizio della parabola amministrativa e politica di De Luca, ancora in auge.
«Salerno è un curiosissimo esperimento politico. E’ in qualche modo un’area nella quale le caratteristiche antropologiche dei politici della Prima Repubblica sono resistite all’avvento della seconda. De Luca, e gli amici di De Luca, offrono questa rapporto di prossimità. Coloro che si sono sentiti gratificati da questo tipo di soluzione, o che non si sono sentiti delusi da questo tipo di soluzione, continuano a propendere per essa».
Sulle macerie della Prima Repubblica nascerà la Seconda.
«Approssimazione politica, zero visione, culto della personalità, nessuna radice culturale e assenza di credibilità nelle relazioni internazionali. Nella Prima Repubblica esistevano il rispetto delle istituzioni e una degenerazione corruttiva circoscritta. Oggi la degenerazione corruttiva è ancora presente ma manca il rispetto delle istituzioni. Per tutte queste ragioni non salvo nulla della seconda Repubblica».
La crisi dei partiti tira dentro anche quella della politica. E viceversa. Il risultato è che entrambi -partiti e politica- vengono commissariati dai tecnici: Draghi docet.
«Se i partiti, tutti, non fanno un bel lavacro di se stessi e ritrovano energia, vitalità e verginità, c’è il rischio che in caso di risultato contraddittorio alle prossime elezioni politiche, si determini nuovamente un governo che li metta all’angolo. Va recuperata un’azione politica in cui il giudizio non sia imperniato sulla seduzione ma sulla verità. Il sistema politico deve ritrovare dentro di sé il germe della riscossa».
Partiti tradizionali: c’è troppo romanticismo nel guardare in quella direzione?
«Non siamo eccessivamente romantici se facciamo il confronto con altre realtà europee. In Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda ci sono partiti che recuperano il filo del pensiero del Novecento. Le elaborazioni culturali che in quel secolo hanno toccato vertici altissimi, ma che non sono state sostituite da nulla nell’arco di questo pezzo di nuovo millennio, possono essere il presupposto per la nascita di nuovo-vecchi partiti. Nuovi perché capaci di comunicare anche nel modo in cui lo si fa nel tempo presente. Vecchi perché debbono avere alcune linee portanti che affondano nel passato, non remoto ma dell’altro secolo, recuperando la vera democrazia parlamentare, la vera rappresentanza di popolo, i veri valori costituzionali, l’arte del dialogo e del compromesso politico in senso alto ma con realismo».
Il ‘canto delle sirene’ accompagna da tempo il dibattito al “centro” del campo da gioco nella direzione di un nuovo, grande, unico soggetto politico. Solo nostalgia che non va più via?
«Dentro questa irrazionale malinconia per un passato che non c’è, e che con tutta evidenza non potrà essere riprodotto, si muove quella spinta verso qualcosa che ridia slancio ai sentimenti, ai ricordi, alle speranze ma anche alle energie. In questi anni la politica ha sedato le energie anziché esaltarle».
Esiste lo ‘spazio’ per un progetto simile o la saturazione è tale da rendere il tentativo velleitario?
«C’è un’area abbondante, inesplorata, al centro del firmamento politico. Un’area temperata più che moderata, propensa a coltivare il gusto del dialogo, a provare i punti di intesa più che i punti di differenza, a varare una serie di condizioni comuni per consentire la prossima agibilità politica a tutti. Senza ostracismi. Senza aggressività. Senza l’idea che l’entrata in Parlamento di qualcuno coincida con la liquidazione dell’altro. C’è stata troppa rabbia in questi anni: non ce n’è bisogno, non è servita; non è stata nemmeno energia vitale».
A destra come a sinistra, tre le anime di centro, c’è grande fermento. Tanto basta?
«E’ il primo passo verso la creazione di un diverso scenario politico. Tutto questo muoversi, scervellarsi, sgomitare non si è però ancora tradotto in cifra politica».
I motori, però, sono accesi.
«E’ un processo in moto in maniera inconsapevole; però è in moto».
Quale la forza politica da costruire?
«Un partito che abbia la mitezza e la risolutezza dei cristiani associata alla perspicacia e all’eclettismo dei laici. Una forza politica che faccia del dialogo il proprio metodo di azione, che rappresenti chi fino ad oggi non si sente rappresentato, che sia votata a coprire lo spazio più ampio possibile rifiutando le solite etichette e i soliti cliché. Oggi non ci si può qualificare né certamente progressisti né certamente conservatori. E’ necessario saper essere pluralisti salvaguardando la libertà di coscienza su alcuni temi fondamentali, propri dei diritti civili e sociali e delle prerogative morali. Ma con la consapevolezza piena che la morale è assoluta e che il partito deve “urlare” ciò in cui crede accettando il confronto, finanche ruvido, con chi crede altro. Penso a un soggetto politico che naturalmente non perda di vista alcune grandi scelte della storia del nostro paese che sono state fatte nella Prima Repubblica come l’europeismo e l’atlantismo e il rifiuto di qualsivoglia forma di autoritarismo. Un partito così potrebbe davvero diventare il partito della nazione ed essere capace di recuperare l’unità degli italiani».
Il leader auspicabile?
«Servirebbe, se non fosse già schierato e collocato su un contesto internazionale, una personalità politica con la misura e la delicatezza di Gentiloni. Un politico capace di guidare senza fare ombra. Capacità, questa, che avevano in tanti ai tempi della Dc. L’antropologia politica, oggi, preferisce altro».
Si sente vicino al progetto di un nuovo soggetto politico di centro?
«Non mi sento vicino agli schieramenti contemporanei. Sono invece prontissimo a sentirmi vicino alle tante persone che oggi fanno politica e sono collocate in partiti diversi e lontani l’uno dall’altro, persone verso le quali nutro ammirazione, solo se il progetto politico sarà in linea con ciò che per me è importante oggi».
Che cosa lo è?
«Ritrovare un clima più dialogante e meno aggressivo nel contesto politico. Recuperare il filo del rapporto quotidiano con le persone, che non possono essere considerate solo carne da macello elettorale. E’ necessaria una nuova dimensione spirituale della politica».
Sogno o realtà possibile?
«Probabilmente sono un sognatore, ma ci provo…. quantomeno a dargli voce».
E a realizzarlo?
«Vedremo».