di Francesco Cuoco
Salerno, 7 luglio 1972: forse per i più giovani è una data che non significa nulla, che non appare meritevole di particolare menzione, ma per i salernitani meno giovani e soprattutto per quelli che hanno alle spalle la militanza politica, come si chiamava un tempo l’impegno a 360 gradi-spesso totalizzante della propria esistenza- nelle formazioni politiche della destra e della sinistra, è un giorno di lutto e di sconfitta, da qualsiasi angolatura di parte lo si voglia vedere, il giorno in cui un diciannovenne salernitano, Carlo Falvella, perde la vita a causa delle proprie convinzioni politiche e per la difesa delle proprie idee. Cinquant’anni fa, in un clima politico e sociale a dir poco arroventato dal rigurgito antifascista strumentalmente alimentato dal paventato affievolirsi dell’onda lunga della contestazione giovanile del 68’ cavalcata dalla sinistra e politicizzata per far breccia nei palazzi delle istituzioni e nella società civile –operazione che potrà poi dirsi, purtroppo riuscita- e apparentemente esauritasi la scia del c.d. “autunno caldo”, momentaneamente stoppato dalla compromissoria promulgazione del c.d. “Statuto dei Lavoratori”, non resta alle forze (non solo extraparlamentari) che proclamansi “rivoluzionarie”, già frustrate nel 1945 dalla soluzione democratica che ne stroncò le velleità di capovolgimento dei rapporti di forza economici e sociali, e che non possono fermarsi ora (nonostante il pavido regime democristiano lasci loro mano libera, utilizzando magari oscuri e subdoli meccanismi di contrasto) nel perseguimento dell’obiettivo finale della lotta di classe, di rispolverare lo spauracchio (anche sulla scorta di alcuni accadimenti sconcertanti quali l’attentato di Piazza Fontana a Milano del 1969 e dei successi elettorali del 1970-71 del Movimento Sociale Italiano) di un nuovo (sic!) fantomatico incombente fascismo, per il quale va ripristinata la pratica “dell’antifascismo militante”. In questo contesto nasce l’omicidio del giovane Falvella, e di questo clima di odio e di contrapposizione violenta faranno le spese negli anni a venire altri giovani missini, essendo divenuto il MSI il bersaglio principale della violenza politica del periodo. Dunque Carlo Falvella ed il suo camerata Giovanni Alfinito sono sul lungomare quel 7 luglio del 1972 e nell’incrociarsi con dei giovani di opposta connotazione politica (Giovanni Marini e Gennaro Scariati) hanno con gli stessi una discussione animata, che comunque dopo una breve scaramuccia dialettica finisce lì. Ma due ore dopo, mentre stanno facendo ritorno alle loro abitazioni, in via Velia Falvella ed Alfinito incontrano nuovamente gli stessi individui, cui se ne è aggiunto un altro (Francesco Mastrogiovanni), e dagli stessi vengono aggrediti, con Falvella che cade vittima delle coltellate sferrategli da Giovanni Marini, che ferisce all’inguine anche il suo camerata Alfinito. Carlo Falvella morirà poi in ospedale. Il gravissimo episodio non può passare inosservato anche alle cronache nazionali, ma quello che avviene successivamente, per il coinvolgimento di noti intellettuali del paese in una campagna innocentista che più che difendere l’uomo Marini ne fa il simbolo di tutela di tutto un mondo di sinistra che, in quanto democratica ed antifascista, non può venir messa sotto processo ed accettare di farsi giudicare come anch’essa responsabile di una violenza che deve rimanere patrimonio esclusivo della cultura fascista, ha davvero dell’incredibile. In questa ottica e con questo obiettivo, viene orchestrata una vergognosa campagna di mistificazione che vede coinvolti, a diversi livelli, personaggi noti dell’epoca come Dario Fo e Franca Rame, che si distinguono particolarmente per la faziosità e la inopportunità delle loro apodittiche prese di posizione promananti dai salotti radical-chic milanesi, tutte tese a dimostrare su un piano di pretesa intellettualità grondante di sociologismo d’accatto, tanto di moda a quei tempi, l’impossibilità che uno sfruttato del sistema capitalistico come l’anarchico Marini possa essere il colpevole di tale accadimento, e non piuttosto la vittima dello stesso. Per la vera vittima, un ragazzo di diciannove anni brutalmente assassinato, nemmeno una parola, nemmeno un segno di umana comprensione e solidarietà, per lui e per la sua famiglia, ma al contrario il tentativo mediatico di farlo passare, in ragione della sola sua appartenenza politica, come il responsabile della sua stessa morte. Si perché secondo il battage mediatico che parte da Milano che con ostentata sicurezza fonda la ricostruzione dei fatti e delle sue causali sui sommari giudizi, tra gli altri, del ballerino anarchico Valpreda, dei Moravia e della Camilla Cederna (quest’ultima autrice di una indecente, livorosa, offensiva, calunniosa e strumentale campagna diffamatoria nei riguardi dell’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone, galantuomo napoletano e autentico luminare del diritto processuale penale, messo nel mirino del PCI di allora perché eletto con i voti determinanti del MSI di Almirante, campagna denigratoria che si concluse con la condanna della Cederna con sentenza definitiva passata in giudicato per diffamazione aggravata a mezzo stampa, ma anche con le dimissioni di Leone, per le quali lo stesso ebbe a denunciare la pericolosità per il sistema democratico delle campagne di stampa orchestrate per sovvertire i risultati di libere elezioni, prima di un pronunciamento giudiziario definitivo) Marini non può non aver agito per legittima difesa. Per il processo infatti “Soccorso Rosso” manda a Salerno avvocati di grido come Giuliano Spazzali e Gaetano Pecorella (anche il senatore del PCI Terracini, che sarà poi il difensore pure di Panzieri e Loiacono, gli extraparlamentari responsabili dell’omicidio dello studente greco del FUAN Mikis Mantakas avvenuto nel 1975 in piazza Risorgimento a Roma ed in seguito divenuti brigatisti rossi), mentre a supporto l’editore Savelli pubblica un pamplhet giustificazionista dal titolo “Il caso Marini”, dove Marini viene fatto passare per un perseguitato, e si cerca di presentarlo in una luce diversa, stemperandone i fallimenti umani e le frustrazioni che contribuirono a portarlo, lui all’epoca trentenne, ad uccidere un ragazzo di tanto più giovane di lui, ammantandolo di una dimensione culturale ed intellettuale, addirittura attribuendogli il premio Viareggio per la poesia, in ogni caso facendone un mito ed un simbolo da difendere. Nonostante tutto questo indecoroso battage le responsabilità di Marini vengono alla luce nel corso del processo, poi spostato presso il Tribunale di Vallo della Lucania per motivi di ordine pubblico, e la sentenza che viene pronunciata è di omicidio preterintenzionale aggravato e la condanna è a dodici anni di carcere, poi ridotti a nove in appello. Naturalmente Marini non sconterà tutta la pena, e verrà affidato ai servizi sociali, ma nel 1982 verrà nuovamente arrestato per banda armata ed associazione sovversiva (Brigate Rosse) e morirà nel 2001, 29 anni dopo Falvella. Sul piano giudiziario, Alfinito verrà condannato ad un anno per rissa (e, ferito gravemente all’inguine, non potrà partecipare ai funerali dell’amico Carlo). Questa è la storia dimenticata- se non dai militanti di destra che ne fanno il”presente” ogni anno- dell’omicidio di Carlo Falvella, della morte di un giovane salernitano nei terribili anni settanta vissuti dal nostro paese, in un epoca difficile, caratterizzata dallo strapotere di una sinistra dominante e tracimante nella società civile e nelle istituzioni, grazie anche alla viltà del regime democristiano, che per mantenere il potere fu capace di qualsiasi compromesso e cedimento, lasciando al coraggio dei militanti missini il compito di opporsi al mostruoso meccanismo giustificatorio della violenza rossa di allora, (per poi strumentalizzarlo attraverso la teoria degli “opposti estremismi”) ed abbandonando il paese sull’orlo di una nuova guerra civile strisciante, che portò numerosi lutti in entrambi gli schieramenti (tra le fila dei giovani missini particolarmente efferato anche per le modalità della violenza usata l’omicidio nel 1975 di Sergio Ramelli, altro diciannovenne come Falvella, caduto a Milano sotto i colpi sferrati con le micidiali chiavi inglesi dai “katanga” milanesi). In ultimo, ma non da ultimo, va sottolineato come, pur fra ambigui distinguo, il PCI salernitano condannò l’uccisione di Falvella e come invece i rappresentanti delle istituzioni di allora, in testa il sindaco democristiano di Salerno Gaspare Russo, brillarono per la loro assenza ai funerali del giovane caduto.