Tosca: “Come fa l’Alfonso al Grande Fratello” - Le Cronache
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Tosca: “Come fa l’Alfonso al Grande Fratello”

Tosca: “Come fa l’Alfonso al Grande Fratello”

Grande esposizione mediatica per il capolavoro a firma di Signorini, che schizza un barone sadomaso nel secondo atto. Tre belle voci dominate dal tenore Freddie De Tommaso e un po’ di “baccano” e imprecisioni tra buca, palcoscenico e retropalco sul filo della bacchetta di Daniel Oren. Teatro Verdi sold out per le due repliche

Di Olga Chieffi

Riuscita operazione mediatica per il teatro Verdi di Salerno, quella di affidare Tosca, amatissimo titolo pucciniano, ad Alfonso Signorini, giornalista televisivo di gossip il quale dal Grande Fratello Vip è sbarcato sul palcoscenico salernitano per firmare un’opera tra le più rappresentate al mondo. Il  Teatro Verdi era stipato, martedì sera, per la “prima” dell’attesissima Tosca: un pubblico eterogeneo, elegante, giovanile, ma anche sportivo, mostruoso e fin troppo benevolo, guidato dal Sindaco Vincenzo Napoli. Primi applausi del pubblico all’ aria “Recondite armonie”, interpretata dalla rivelazione italo-americana Freddie De Tomaso, il quale già dalla sortita ha palesato la sua piena maturità tecnica, con acuti naturalissimi ed emessi senza alcuna forzatura, canto che ha esaltato anche l’orchestra, alla quale è affidato il primo momento di contrasto, con i colori evocati dai versi che si trasferiscono dalla tavolozza di Mario Cavaradossi al timbro dei due flauti, Antonio Senatore e Mario Montani, maestro e allievo, con Vincenzo Scannapieco terzo flauto e ottavino a chiudere una sezione che è “scuola” per eccellenza, movendosi per quinte e quarte parallele, con impressionistiche pennellate, introducendo la lirica esaltazione della bellezza femminile. Avendo voluto esaltare il primaverile impeto virile, gli ardori, Freddie De Tomaso ha poi continuato nel duetto con Floria Tosca, una applaudita Maria Josè Siri anche lei dalla voce piena e avvolgente, che non perde affatto nel confronto con le divine, ma che nel I atto ha si ben definito gli strappi vocali che costellano la sua parte, ma non ha mai “srotolato” pienamente il velluto della sua voce, in quelle pause di disteso lirismo, come in un secondo atto in crescendo, da parte sua, al di fuori dell’attesissima “Vissi d’arte”, che ha fatto testo a sé, stregando pienamente l’uditorio. Orchestra, non in grandissimo spolvero in particolare, la sezione dei violini e delle viole, ottoni con volumi fuori controllo e qualche suono non bellissimo da parte del I oboe, già dall’apparizione in Sant’Andrea della Valle di Gabriele Viviani, il quale ha prestato la sua bella voce baritonale, al barone Scarpia, interpretato con eleganza e distacco, in quel suo coacervo, così accuratamente pensato da Puccini, di sicura virilità, attitudine e pratica del comando, ipocrisia burocratica e religiosità formalistica. Il regista Alfonso Signorini, non ha affatto centrato, il personaggio, in particolare nel secondo atto, ma queste son cose che vengon fuori solo da un profondo e continuato rapporto con la partitura. Scarpia è il più illuminista dei personaggi, e solo l’ambiguità (ed è questa la caratteristica propria della corda baritonale) dell’ orgasmo che prova durante il Te Deum, dà l’idea di quella commistione tra lo sfarzo e la restaurazione dell’ arretratezza di un potere barocco e la libertà dell’ era napoleonica, mescolando, alle Des Essenintes, l’eros, la religione e la volontà di potenza di Scarpia, in una sorta di malata sinestesia, che lo porta in un’area affatto diversa, decadente. Al Barone è associato quanto di più fine il linguaggio musicale abbia coniato in questa partitura, ma anche quanto di più elaborato sotto il profilo drammatico, grazie ad uno sviluppo di alta qualità, la cui personalità richiede un pari crescere della personalità di Tosca. Signorini nel secondo atto ha risolto con uno Scarpia nudo sotto la ampia vestaglia da camera arabescata e un frustino australiano da salto ad ostacoli, macchia per colui il quale si è piccato in conferenza e al TG5, di aver curato tutto nei minimi particolari, “come fa l’Alfonso al Grande Fratello”, un barone mostro sadomaso. Ripensando, però, ad un’esegesi attenta dell’opera, sulle tracce di Luigi Torchi, l’opera è carente di carattere eroico e di morale positività. Se la musica di Tosca discute di continuo in termini di forza e violenza e pur la forza e la violenza vi paiono escluse in modo sì palese, ciò è perché quella forza e quella violenza, in quanto categorie di un’ideologia adusa a risolvere in chiave di moralità persino il Male, sono state qui distorte in una sorta di isteria, fragile e convulsa, simile a un’unghia che si spezzi e strida al contatto. Il Male, grande entità dialettica del teatro ottocentesco, cede il suo posto, al Malessere; a quel Malessere per il quale il solenne serbatoio della melodia verdiana stava svuotandosi in favore del corto respiro del frammento, e che è sembrato trapelare in qualche particolare solo dalla scenografia, firmata da Alfredo Troisi, realizzata con elementi che ricordiamo protagoniste in produzioni precedenti. Infatti, Alfonso Signorini nel I e nel III atto non ha messo naso fuori della gabbia precostruita dai tempi e dai luoghi del libretto, senza tentare nulla, finanche il rosso della luce, una citazione, ingigantita della locandina di Hohenstein, mentre Daniel Oren ha lasciato molta libertà ai cantanti, i quali, come nel caso di Viviani, l’han pure tradito, tenendo per sé solo il terzo atto.  L’ alba romana, schizzata su pannelli illuminati, sottolineata dal tema d’amore, s’insinua tra queste luci, precedendo di poco la melodia appoggiata sul Mi grave del campanone, che annuncia l’uscita di Cavaradossi, purtroppo, mal intonata dagli archi. Il trapasso tra questa sezione e l’attacco “E lucean le stelle” è affidata al clarinetto, quello stordente “cantabile” elevato da Luigi Pettrone, il quale si è asservito alle indicazioni di Daniel Oren, di un pianissimo, che la scuola napoletana ha, comunque, sempre inteso pieno di armonici, “suonato” dopo l’attacco, che ha si da sembrare provenire dal nulla, secondo i dettami impressionisti. Degni del nostro massimo i comprimari, Carlo Striuli, Cesare Angelotti, Enzo Peroni, Spoletta, Antonio Palumbo un carceriere. Una nota di merito, per il baritono Angelo Nardinocchi, il Sacrestano, per la caratterizzazione del personaggio, sia per lo Sciarrone di Maurizio Bove, oltre che per la bella voce, per non essersi affatto disunito nel dialogo con Gabriele Viviani, nonché  Giorgia Mauro, che se l’è ben cavata con la non facile aria del pastorello “Io de’ sospiri” in modo lidio, con alle spalle un attentissimo Francesco Aliberti, il quale ha proficuamente preparato il Coro della Filarmonica, mentre la cantorìa è stata curata da Silvana Noschese. Lancio di rose e ieri il bis con Carlo Ventre nelle vesti di Mario Cavaradossi.