Italo Penco: “Cure palliative, c’è il personale ma mancano le strutture” - Le Cronache
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Italo Penco: “Cure palliative, c’è il personale ma mancano le strutture”

Italo Penco: “Cure palliative, c’è il personale ma mancano le strutture”

di Erika Noschese
Sono già passati tredici anni dall’introduzione, in Italia, della Legge 15 marzo 2010 n. 38 – concernente “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” (Gazzetta Ufficiale n. 65 del 19 marzo 2010) – che tutela, all’art. 1, il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore ed individua tre reti di assistenza dedicate alle cure palliative, alla terapia del dolore e al paziente pediatrico, ma ancora oggi le cure palliative sono poco diffuse e non pienamente applicate. Nel nostro Paese è necessario, anche a causa dell’aumento delle malattie croniche, avviare un cambiamento culturale sulle cure palliative, che sia in grado di coinvolgere non solo medici e operatori socio-sanitari, ma tutti i cittadini. Con questa finalità è stato redatto il libro “100 domande sulle Cure Palliative”, edizioni SEEd, a cura di Anna Maria De Santi (Istituto Superiore di Sanità) e Italo Penco (Fondazione Sanità e Ricerca). Quest’ultimo è protagonista di queste colonne: il dottor Penco è Direttore Sanitario della Fondazione Sanità e Ricerca, che ha aperto a Roma nel 1998 – su idea e volontà del Prof. Avv. Emmanuele F.M. Emanuele (oggi presidente onorario della Fondazione Roma) – il primo hospice del Centro-Sud Italia: qui vengono assistite, quotidianamente, in cure palliative 30 persone in hospice e 120 a domicilio.
Cento domande, ma non ne basterebbero mille.
«Per questo libro, infatti, lo stimolo è stato dato fondamentalmente dai risultati che vediamo rispetto alla costituzione delle reti di cure palliative: decessi eccessivi in ospedale, pazienti che arrivano in hospice sempre molto tardi, assistenza domiciliare non sufficientemente sviluppata, cure palliative in ospedale ancora carenti. Una percentuale altissima di pazienti resta in hospice per un periodo molto, molto basso: capita che arrivino in stato già agonizzante o che restino degenti solo due o tre giorni. Ci siamo quindi posti la domanda: come mai c’è un comportamento dei sanitari così poco integrato da non permettere cure palliative appropriate sia dal punto di vista clinico che organizzativo? Dovrebbero essere attivate già al momento della diagnosi, non necessariamente come cure specialistiche ma almeno come consulenza. Inoltre ci siamo posti la domanda: perché i familiari o i malati non conoscono affatto le cure palliative? Perché il medico di medicina generale, per esempio, non inizia un discorso con il malato affetto da malattia inguaribile per capire quello che vorrà fare in futuro, quando la malattia si aggraverà? Poi abbiamo elaborato altre domande che ci hanno suggerito gli operatori stessi, perché quando prendono in carico un malato evidenziano una serie di dubbi che i familiari manifestano con domande ripetitive, su alcuni termini utilizzati frequentemente durante l’assistenza. La sedazione palliativa, ad esempio viene confusa troppo spesso con l’eutanasia».
Come mai c’è confusione tra sedazione palliativa ed eutanasia?
«Perché con la sedazione si provoca un’incoscienza per non far sentire una sofferenza refrattaria a qualsiasi trattamento e questo viene equiparato ad un atto che provoca la morte, ma non è affatto così. Ci sono altre tematiche che sono frequentemente non comprese, come ad esempio il problema della nutrizione/idratazione, perché il familiare troppo spesso si preoccupa del fatto che il proprio caro non riesce più a nutrirsi e identifica la mancata nutrizione come causa di morte, senza comprendere che è la vicinanza alla morte che impedisce e rende vana la nutrizione. Abbiamo cercato, in modo molto semplice, di sciogliere i molteplici dubbi».
Per esempio?
«La confusione che si genera tra terapia del dolore e cure palliative: molto spesso si identificano i termini, ma il dolore fisico che si tratta specificatamente con una terapia farmacologica è diverso da quello totale, di cui si occupano le cure palliative».
In che modo?
«Quando un malato riceve una diagnosi di inguaribilità e di colpo, quindi, sa che non ci sono altre possibilità di guarigione: anche se il malato non ha dolori fisici, sono tangibili quelli psicologici perché gli cade il mondo addosso. Quindi il dolore diventa sofferenza e anche questa va trattata, con intervento psicologico adeguato. Allo stesso modo anche nei confronti dei familiari. Queste domande potrebbero facilitare l’informazione in generale».
Non è competenza del personale sanitario?
«Purtroppo, anche i sanitari stessi, non avendo svolto un percorso adeguato in tal senso, hanno difficoltà: non tutte le facoltà insegnano le cure palliative. Il concetto è che un medico che si laurea, in un’altissima percentuale di casi non sa di cosa stiamo parlando. Anche nell’attività normale, di conseguenza, questo buco formativo si ripercuote sull’informazione al cittadino e sull’avvio di un percorso adeguato».
Buco formativo e normativo, quindi?
«Il buco normativo in realtà non c’è, perché la legge 38 ha previsto veramente tutto: le reti di cure palliative, quindi un percorso che dovrebbe garantire il diritto del malato di non soffrire, tramite i vari setting previsti tra cui Rsa, hospice, terapia domiciliare e altro ancora. L’applicazione però sta durando tanto, troppo: sono passati 13 anni».
È tempo, ora più che mai, di fare qualcosa.
«Forse ora un barlume di luce si vede, grazie all’ultima legge di bilancio, la 197 del 2022, che ha stilato un programma per cui le Regioni, entro 5 anni, dovranno rispondere al 90% dei bisogni delle cure palliative. L’Agenas monitorerà il programma che ogni Regione annualmente deve seguire. Sarebbe, questo, un successo enorme, considerando che in molte Regioni, valutandone lo stato attuale, siamo ancora indietro».
È il caso della Campania e della provincia di Salerno. In città un hospice da 13 posti letto è costato anni di lavori e un ospedale quasi dismesso.
«L’Agenas ha mostrato che in Campania, tutto sommato, la situazione è disomogenea perché tra Napoli centro, Napoli sud e Salerno si hanno servizi sulla carta buoni, ma dalle altre parti non c’è nulla. Tutto questo, basandosi sulle autodichiarazioni. Se però si vanno a vedere i vecchi indicatori, la Campania non ha ottemperato a questo: anzi, sta molto indietro. Quindi credo che, da un punto di vista regionale, si dovrebbero investire risorse che poi debbano portare alla strutturazione vera e organizzata delle reti di cure palliative».
Quindi Salerno e la Campania bene su carta, ma non nel concreto.
«L’Agenas nel 2022 ha fatto questa rilevazione, semplice, sullo stato dell’arte, basandosi sulle dichiarazioni delle Regioni: le ha confrontate con gli indicatori dei Lea, in cui la Campania è risultata inadempiente».
Si potrà migliorare?
«La legge di bilancio dice che le Regioni, entro il 31 gennaio di ogni anno, dovranno fare programmazione annuale con l’obiettivo di arrivare, nel 2028, a dare una risposta concreta fino al 90% del territorio. Se la Campania deve avere, per dire, 25 hospice, l’Agenas andrà a verificare semestralmente quali adeguamenti la Campania andrà ad effettuare per raggiungere l’obiettivo».
Rispondere a domande di questa entità, senza avere una traduzione pratica sul territorio, non migliorerà la situazione.
«Le 100 domande chiaramente servono a sensibilizzare i cittadini, ma servono anche a sensibilizzare i medici. Evidentemente deve esserci un intervento regionale strutturato per fornire i servizi: le persone possono essere sensibilizzate, ma se non c’è un hospice e non c’è un’assistenza preliminare, queste domande non danno risposta. Se mancano i professionisti sul territorio, come si fa a rispondere a sintomi con cure palliative? Se il malato ha bisogno di oppioidi e i professionisti non sono formati circa le modalità di prescrizione, diventa tutto difficile».
Un hospice come quello di Salerno, da 12 posti letto, può davvero garantire adeguata copertura a un territorio geograficamente così vasto?
«Gli hospice mediamente hanno 13 posti letto, da media nazionale. Ma il problema non riguarda una singola struttura: si tratta dei posti totali in territorio regionale. L’hospice di 10 posti letto è assolutamente attuabile e funzionale, perché ognuno di essi deve avere anche una certa territorialità. Avere un hospice a 80 km e creare difficoltà affinché un parente possa visitare il paziente negli ultimi giorni di vita, non renderebbe il discorso funzionale».
Come si calcola il numero di hospice necessari sul territorio?
«Il numero dei posti letto hospice si calcola con un sistema un po’ vecchio, ma equivale a 1 posto letto ogni 56 deceduti per tumore. Prima si parlava soltanto di oncologico, infatti. Se consideriamo però che i pazienti non solo sono oncologici ma affetti anche e soprattutto da patologie non oncologiche, si arriverebbe già a una prima evoluzione. Questo è il parametro».
Per l’assistenza domiciliare, invece?
«Non c’è un parametro specifico: però è evidente che l’assistenza domiciliare rappresenti la fetta maggiore che bisognerebbe implementare. Il domicilio è il luogo di elezione: non tutti hanno bisogno di hospice, si può morire con assistenza adeguata a casa. Anzi, è auspicabile che ciò avvenga. In molti casi, però, si registra una popolazione molto anziana all’interno di famiglie che sono sempre in numero ridotto di componenti per nucleo: dunque, non sempre è possibile garantire assistenza domiciliare».