Violenza, rifugio incapaci. Gentilezza, ultimo rimedio - Le Cronache Attualità
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Violenza, rifugio incapaci. Gentilezza, ultimo rimedio

Violenza, rifugio incapaci.  Gentilezza, ultimo rimedio

Aldo Primicerio

Bulli e cyberbulli ad ogni angolo del web. Una donna vittima ogni dieci minuti. Medici e infermieri aggrediti negli ospedali. Docenti presi a pugni dai papà dei loro alunni. Stati Uniti faro del mondo, eppure con un’arma in ogni famiglia. 1 bambino su 5 vittima di una violenza sessuale. E poi le guerre, con gli 80mila morti a Gaza, i più tra donne e bambini, ed i 100mila soldati ucraini e gli 800mila russi morti in una guerra provocata dal peggior dittatore dopo Stalin. Un elenco infinito. Perché, nel girarci intorno, ci accorgiamo di vivere in un’epoca di brutalità, di prepotenza e di arroganza e, quel che è peggio, dominate dal più becero cinismo.

 

Ma perché tanta violenza? Perché così contagiosa e così attraente? Dov’è la miccia? E perché soprattutto i giovani, gli adolescenti?

Molti l’addebitano alla pandemia. Avrebbe causato un aumento della tensione e dello stress in molte famiglie. E questo può aver contribuito a far crescere l’aggressività, soprattutto negli adolescenti, la fascia di età oggi più interessata. Il lockdown prolungato e la limitazione delle relazioni sociali li avrebbero privati di opportunità indispensabili alla loro crescita e sviluppo personale. Un fenomeno che nasce maggiormente in aree dove si consolidano i comportamenti più aggressivi e violenti. Cioè le periferie delle città, dove famiglie pluriproblematiche articolano la loro sopravvivenza quotidiana tra carenze di affetti, difficoltà economiche, dispersioni scolastiche, frequentazioni di ambienti intrisi di microcriminalità.

Ma dove nasce la violenza? Spesso è il risultato di una sensazione di impotenza, di non controllo, una sorta di rifugio dall’incapacità, come abbiamo accennato sopra nel titolo. Insomma, la violenza come tentativo estremo di stabilire l’unico ordine che in quel momento viene considerato accettabile. Una violenza che, va sottolineato con forza, viene poi pensata coltivata e riprodotta nei film e nei serial delle grandi reti televisive. Le storie di violenza – cari autori e sceneggiatori – stimolano l’amigdala, l’ipotalamo, la corteccia temporale e prefrontale, l’ippocampo, alcune aree del nostro cervello che presiedono al controllo (o al non controllo) dell’aggressività. Le stesse regioni, però, dove nasce e si sviluppa l’amore, la grazia e, ne parleremo tra breve, la gentilezza.

 

Scollamento sempre più ampio tra mondo dei giovani e quello degli adulti

I ragazzi hanno la percezione di non essere ascoltati. Persino la scuola appare come un luogo non sicuro. Ed ecco la fuga verso i social. Dove nasce, si condivide e si scatena la violenza. E quindi, anche la sofferenza. Sono le risposte di un campione di 10mila adolescenti trai 15 ed i 19 anni intevistati nel sondaggio “Indifesa”, realizzato di recente da una non profit come Terre des Hommes, e da una community building come OneDayGroup.  3 adolescenti su 10 dichiarano di aver assistito a un episodio di violenza di genere. Ma quasi l’80% di loro crede che le giovani vittime non siano prese sul serio dagli adulti. C’è quindi uno iato, uno scollamento sempre più ampio tra mondo giovanile e mondo degli adulti. Un fenomeno che deve spingere ad ascoltare i ragazzi sui temi della violenza di genere, delle diseguaglianze, del bullismo, e del cosiddetto sexting, lo scambio di messaggi a contenuto sessuale sulle chat dei social o su WhatsApp. Insomma è l’opposto di quello che noi adulti pensiamo e ci diciamo. Siamo infatti noi grandi sotto accusa. Noi nonni, genitori, educatori, maestri e professori. Perché non sapremmo decrittare il malessere degli adolescenti ed aiutarli ad uscirne. Ma sotto accusa anche le istituzioni, i sindaci, i presidenti delle Regioni, i parlamentari, i governi. Capaci solo di esprimere solidarietà o cordoglio per le vittime di tragedie, ma non di agire e di assumere iniziative adeguate. Se si leggono nel sondaggio i luoghi dove le violenze si consumano, emerge il fantasma della sconfitta. Secondo i ragazzi, al primo posto (44%) c’è proprio la scuola. Poi i social (28%), spazi erroneamente virtuali, perché si trasformano in parte reale della vita di ognuno di noi. E, non distante (22%), la famiglia o la coppia. Ed infine – vedi anche l’ultimo episodio di cronaca nella pallavolo giovanile – il mondo dello sport (6%). Molto interessante anche il tipo di violenza che emerge dalle risposte dei ragazzi. La prima (46%) è la violenza psicologica, poi (24%) quella fisica, ed infine quella sessuale, la meno frequente (10%). Insomma, siamo davanti ad un macroscopico fenomeno di inascolto della violenza. Che ci induce a convincerci che si è sbagliato e si sta sbagliando, e che dietro le devianze giovanili ci sono proprio gli errori di noi adulti.

 

Ma combattere la violenza si può. Con piccoli gesti quotidiani di gentilezza e di pietà

Ce ne siamo resi conto di recente seguendo il festival di Sanremo. Dove la sensibilità di Simone Cristicchi si è materializzata nella sua canzone “Quando sarai piccola”. Qui, alludendo alla madre colpita da una emorragia cerebrale irreversibile, il cantautore esplora il tema dell’invecchiamento dei genitori che tornano un pò bambini, suscitando nei figli tenerezza ma anche impotenza di fronte all’età che avanza, e spesso devasta. Una performance che ha commosso fino alle lacrime gli spettatori in sala e gli italiani a casa. Ma perché? Perché ognuno di noi si è identificato e riconosciuto nelle storie familiari vissute, storie di invecchiamento e di declino cognitivo che colpiscono genitori, nonni, zii o amici. Al di là di qualche inevitabile critica al pietismo inadatto ad un festival (la canzone fu rifiutata 5 anni prima da Amadeus, ma Cristicchi capì e non se ne lamentò), “Quando sarai piccola” contiene un valore immenso. E lancia messaggi alti: come “la rabbia di vederti cambiare”, “la fatica di doverlo accettare”, “ancora un altro giorno assieme a te”, e, al fondo di tutto, una etica della grazia e della cura, un’esperienza – scrive mirabilmente De Sabbata della Keele University – indispensabile a costruire quelle relazioni capaci di farci capire il vero senso delle nostre esistenze. Purtroppo, il fenomeno dell’invecchiamento e del declino cognitivo viene spesso trascurato in una società come la nostra. Una società individualista e competitiva. In cui siamo orientati ad apparire belli, ricchi ed invincibili, e, negli ultimi tempi, ad inseguire folli disegni di guerra o miti antieuropeistici. Manie comuniste negli anni ’40 e ’50, poi diventate di recente anche “destriste”. Parlare di cura è quindi fondamentale, prendersi cura un’attività naturale. Che ci riporta all’esordio della nostra esistenza, quando nasciamo e siamo oggetto di cura. Aver cura non ha bisogno di particolari sofismi intellettuali, ma di semplici gesti quotidiani: un abbraccio, una mano che ci sfiora, od anche il silenzio. La brutalità, la prepotenza, l’arroganza, frutto dell’edonismo occidentale, sono la vera peste della società di oggi. Contro cui la gentilezza, la grazia, il tornare a commuoversi possono essere la semplice medicina del nostro tempo, di questa società malata, e delle sue peggiori qualità umane. Un farmaco, insomma. Per salvare l’umanità dall’odio, dalla vendetta, dalla sua incapacità, e dalla sua stupidità.

 

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