Trionfo per Alessandro Preziosi che al Teatro Verdi di Salerno ha interpretato gli ultimi giorni dell’artista
Di OLGA CHIEFFI
“L’udito percepisce l’eco, rumore confuso o bailamme, doppia fluttuazione, inseminazione del tutto originaria sulla nube o sul rumore bianco” E’ il Michel Serres di “Genesi” che ci è balenato innanzi, nel corso dello spettacolo “Van Gogh. L’odore assordante del bianco”, un testo complesso di Stefano Massini che ripercorre l’internamento di Vincent Van Gogh nell’ospedale psichiatrico di Saint Paul-de-Manson. Un piano inclinato, quattro mura bianche, “un ramo di mandorlo in fiore in un bicchiere”, bianco. Qui è rinchiuso Vincent Van Gogh, il quale vive percorrendo quella labile linea d’ombra che divide sogno e realtà, tra ansia, indistinto, rumore, noise, specchio di quel suo Amleto, vestito di bianco, risalente quasi ad un decennio fa, rappresentato in un momento di grande disequilibrio mentale, considerato, ormai, un pazzo da tutta la corte, sprofondato in una solitudine che lo allontana dagli amici, una rilettura shakespeariana in cui non si riusciva a comprendere se il Principe faticasse ad accettare la realtà, oppure se la realtà in scena fosse una proiezione della sua mente. Van Gogh è convinto e ha paura di restare solo, di non poter dipingere. Tutto per lui diventa noia e dolore in quel deserto bianco e tutto questo è troppo. È una vita struggente, la sua, contorta come gli ulivi e i cipressi che in quel periodo mette in tutti i suoi quadri, anche i girasoli sembrano muoversi, come esposti al vento dell’inquietudine, un’ interpretazione emotiva della realtà che sarà la caratteristica di uno stile di cui l’artista olandese sarà precursore: l’espressionismo. Scrive e racconta, Vincent, al fratello Theo, di voler ritornare a Parigi dove ha conosciuto gli impressionisti, quelli poveri come lui e quelli già affermati: Toulose Lautrec, Emile Bernard, Gauguin, Cezanne, Renoir, Monet, Pissarro, Degas, che gli hanno insegnato a cercare il colore nelle ombre e il gioco dei loro accostamenti: i colori non vanno mescolati ma accostati, perché solo così le superfici diventano vive, e “il nero non è mai solo nero: è blu, è marrone, a volte insieme”. Da loro ha imparato a schiarire i suoi dipinti che, fino ad allora, erano di toni cupi, e con loro ha bevuto tanto assenzio, sino ad allucinarsi, ed ora vorrebbe un’opera di ognuno di loro, per sentirli vicini. Capelli rossi, occhi piccoli, infossati, a volte azzurri, a volte verdi, instabili come il suo carattere. Figura corta, tarchiata, schiena curva per l’abitudine di guardare sempre per terra, fronte rugosa e uno sguardo aggrottato per le troppe riflessioni, certo Preziosi è lontanissimo dal fisico del pittore, ma riesce ad evocarlo su quel piano inclinato, ove tutto è in bilico: assistiamo lì alla fantasmatica visita di Theo Van Gogh interpretato da Massimo Nicolini, quindi, ad uno spiazzante cambio di registro con Vincent che si scontra con l’equipe medica, dove gli infermieri Rolande, Vincenzo Zampa, e Gustave, Alessio Genchi, insieme al capo-sala Vernon-Lazàre, Roberto Manzi, sono i grotteschi rappresentanti di una psichiatria desueta e ortodossa, fatta di lunghi bagni e camicie di forza, che dicotomizza follia e normalità. Nel finale Vincent trova un alleato nella figura del direttore Peyron, un ottimo Francesco Biscione, il quale, attraverso pratiche psicoanalitiche più moderne, quali l’ipnosi, prova ad aiutare il suo paziente, andando oltre la sua diagnosi fatta di vuote etichette quali non violento, inoffensivo e socialmente placido. Con la fiducia di Peyron ritorna il suo amato giallo sulle note del Lohengrin di Wagner. Vincent amava ascoltare musica, soprattutto quella del genio di Lipsia: “I suoi suoni sono scale cromatiche. Gli oboi sono verde e grigio, i tamburi sono ocra scuro, i violini sono di giallo cadmio”, ma seguendo le riflessioni estetiche del compositore in “Das Kunstwerk der Zukunft” e la figura stessa di Lohengrin, si intuisce nel divieto imposto dal Cavaliere del Cigno alla sua amata –“Mai devi domandarmi”- la tragedia dell’artista moderno. Il Cavaliere del Cigno è la figura dell’artista innocente “puro nell’intimo del cuore”, come il compositore stesso crede di essere, poiché sente di aver “operato sempre per altri, e non per sé”, e le sue “sofferenze ne sono testimonianza” come lo è la tormentata fuga di Lohengrin dal consorzio delle genti, pari alla figura di Vincent Van Gogh che, dopo il balenio del giallo si ritrova di nuovo nel nero e stavolta per sempre. Applausi in sala e diverse chiamate al proscenio per Alessandro Preziosi, che ha rasentato l’iperbole espressiva, e per l’intera compagnia diretta da Alessandro Maggi, convincendo il pubblico del Teatro Verdi di Salerno.