Abbiamo chiesto ad Andrea Manzi, già caporedattore del Mattino, fondatore e direttore de La Città e vice direttore del Roma, una riflessione sul terremoto politico determinato dalle recenti scelte del PD per le candidature al Parlamento.
di Andrea Manzi
Salerno da anni è il laboratorio più avanzato di quella che Giorgio Galli definì “democrazia senza popolo”, un’area dalla quale è stato espunto il pensiero, lasciando spazio e operatività soltanto a una politica interamente innervata sul “fare”. Ecco, il fare: in nome e per conto di chi? Con quale finalità, con quale riconoscibile interesse generale? Il problema – è sin troppo facile obiettare – è nazionale, pertanto sarebbe ingiusto e arbitrario considerarlo in un perimetro locale. Siamo, infatti, ancora, e da decenni, in attesa di leggi che disciplinino l’attività dei partiti, fissino con certezza i meccanismi democratici del loro funzionamento, controllino le Fondazioni che indirettamente li finanziano, contrariamente a quanto avvenuto in Germania, nel Regno Unito, in Austria, Spagna e finanche nella tormentatissima Grecia. Un palese tradimento della Costituzione, che richiede agli articoli 39 e 49 la disciplina rigorosa dell’attività sindacale e quella, non meno indispensabile, dei partiti politici. Si è sempre cercato, cioè, di rendere insondabile la vita delle formazioni che dovrebbero coagulare consenso, attraverso l’elaborazione di programmi e progetti sui quali orientare l’attenzione dell’opinione pubblica. Negli Stati Uniti, già a metà degli anni ‘40, furono disciplinate con norme rigorose costantemente integrate le lobby che sostengono i partiti; da noi nemmeno a parlarne, se è vero che decine di disegni di legge sono miseramente abortiti, mentre più di 60 Fondazioni continuano a fare razzia di denaro privato, che finisce in parte nelle casse dei partiti, attraverso arditi travasi finanziari, o più frequentemente nei portafogli di simil-leader che allargano mediaticamente il potere delle loro scialbe immagini pubbliche. Ma come può una democrazia irrobustirsi se i vettori determinanti della sua articolazione sono palesemente anti-democratici, oltre che illiberali? Calamandrei sarebbe impazzito al pensiero.
Se l’interrogativo scuote la coscienza nazionale, perché, dunque, a Salerno e in Campania assume una drammatica specificità, con la palude della post-democrazia che tragicamente determina l’implosione di ogni spinta democratica progressiva? La risposta, a prima vista, è semplice, perché rilevabile dallo stato delle cose. Non solo non si è verificata, come d’altronde in tutta Italia, quell’attesa Grande Ribellione, necessaria per riconquistare i più consolidati strumenti popolari della lotta e del pensiero, utili per entrare nei conflitti e attivare soluzioni democratiche sagge ed efficaci; ma in Campania, con una falcidia inesorabile attivata con pervicace finalismo, è stato cancellato dal piano dei desideri popolari lo stesso dovere civile e morale della partecipazione, nonché il gusto per la tenacia con cui vanno perseguiti gli obiettivi. Tutta questa involuzione è stata operata in quel lungo e interminabile periodo storico che la vulgata pone sotto il nome di “deluchismo”, nulla più che uno gioco di società – con una famiglia senza particolari qualità, né etiche né politiche, detentrice del banco in un infantile e lucroso passatempo – che ha trasformato la politica in un torbido giro dell’oca, nel quale si torna immancabilmente al punto di partenza.
Come potevano convivere Alfonso Andria e Federico Conte con gli avanguardisti di una visione di cortissimo respiro politico, con i pionieri dell’impoverimento partecipativo e morale, costruttori di utilità personali e familiari certificate? La loro presenza avrebbe violato una ferrea volontà di potere, creando per il regime pericolose aree di discontinuità e di comparazione con l’universo rugoso di un Sistema allestito in tre decenni di abusi, collusioni, compromissioni e troppi salvacondotti attivati da inquirenti distratti e poi attratti dal periclitante “gioco/giogo” di società.
Alfonso Andria – che non ha, peraltro, mai chiesto candidature al PD e si è dimesso dal partito per convinto dissenso sui suoi metodi di gestione – è un signore non soltanto della politica, destinatario di diffusi consensi e di rilevante stima: non ha infatti mai lucrato come altri sulla condizione di debolezza del paese e, soprattutto, non ha mai utilizzato il tasso di rischiosità istituzionale per trarne utilità, vantaggi o allestire ardite scalate sociali di cui, a differenza di altri, non ha proprio bisogno. E di Federico Conte – tra i più brillanti avvocati penalisti campani, che ha rinunciato a concorrere anche a causa di una penalizzante collocazione nella lista di coalizione per il Senato orchestrata dai Dem – parlano l’attività e gli interventi parlamentari su questioni nodali del nostro tempo: la sua partecipazione attiva ai dibattiti della Camera ha spinto ancora più in alto le autorevoli tradizioni familiari, con l’obiettivo di offrire risposte sistemiche e riformiste agli interrogativi di una società meridionale smarrita sul crinale di una progressiva decomposizione. Due figure incompatibili con il disegno – perseguito con cinismo – del deterioramento della qualità della politica e del discorso pubblico. Disegno che è funzionale alla tenuta di un assetto leaderistico chiuso in se stesso, complice la disaffezione e/o la scarsa lealtà repubblicana di molti cittadini, precipitati nella logica della sottomissione e della delega incondizionata al potente di turno, delega però macchiata da una viltà di massa.
Va da sé che l’esperienza del Sistema/anti-Sistema campano non avrebbe potuto evolvere in chiave politicista senza la complicità determinante dell’attuale assetto di vertice del Partito Democratico, nato quindici anni fa con l’obiettivo – guarda un po’! – dell’autoriforma della politica italiana e del rilancio delle istanze progressiste europee. Nelle passate elezioni politiche, i candidati Pd al Parlamento nei capoluoghi di provincia scelti con le primarie furono soltanto 4 su 25. Questa volta il segretario Letta non ha proprio più parlato di primarie o di altri criteri democratici di scelta, consegnando, in luoghi come la Campania, le chiavi della selezione ai burattini del più populista e antipolitico dei suoi leader, che ha sempre sfruttato il “suo” corpo elettorale con l’unico obiettivo di evitare il rovescio delle fortune, non soltanto politiche, acquisite e lievitate nel tempo. Obiettivi, questi, perseguiti, talvolta, grazie a spericolate alleanze a destra, concordate con individui poi cancellati dalla scena in seguito a inchieste giudiziarie da brivido. Si è creato in Campania un clima sub-culturale, un “mood”, che resiste anche alle censure della storia e alle attività degli inquirenti, un gattopardismo avventuroso che cavalca un pensiero di frodo, ormai incompatibile con i diritti dell’utente-cittadino.
Non è pertanto più possibile lasciare l’offerta politica a chi persegue la spoliticizzazione utilitaristica per tutelare la propria lobby, i propri interessi o le malinconiche ambizioni dell’erede-figlio già sonoramente bocciato dall’elettorato salernitano. No, la politica non può continuare ad accettare la corruzione del proprio primato e la subalternità a poteri economici equivoci diretti da un salotto di casa. La democrazia deve tornare a vivere “del” pubblico e formarsi in aree aperte al confronto. Se si viola questa regola basica si cade nella post-democrazia e il confronto elettorale avverrà tra gruppi rivali, con la massa dei cittadini confinata in un ruolo ancora più acquiescente e apatico. L’auspicio, quindi, è che il terremoto elettorale salernitano a sinistra non sia soltanto un evento che la cronaca presto archivierà. Tutti i sistemi neoliberisti fanno affidamento sui silenzi, sulla “privatizzazione” del dissenso e sul suo arretramento anti-istituzionale.
Al contrario, da una denuncia così clamorosa della corruzione della sintassi politica deve poter rinascere un “patto comune” con la gente, il solo in grado di custodire il valore della politica. Certo, si tratta di un percorso forse lungo, specie su terreni impervi e accidentati come quello campano, trafitto da una crisi economica e ambientale senza precedenti, ma la democrazia merita l’asprezza e la fatica del cammino.
Il centrodestra, quasi certamente, stravincerà le elezioni anche in Campania, soprattutto grazie alla forte miopia politica di una sinistra ormai logora, localmente affidata a capi che definire lepenisti – Campania docet! – è un eufemismo. Le dinamiche storiche, però, non si interrompono o correggono dall’alto. Il populismo, di destra o in salsa deluchiana che sia, è la spia della crisi dei ceti medi e bassi. È a loro che occorre rivolgere lo sguardo, nel tentativo di trasferire l’innocenza intima del popolo sul terreno dello spirito pubblico. Percorso che impone, per coerenza, di non individuare il PD come alternativa praticabile. Il partito della famiglia De Luca e del sodale Letta è oggi incompatibile con la democrazia: votarlo sarebbe soltanto un autoinganno.