Il regista della trilogia Ivan Alexandre tradisce le indicazioni di Lorenzo Da Ponte, nelle Nozze, nonostante il protagonista Figaro non abbia fatto che gigioneggiare per l’intera rappresentazione
Di Mariangela Stanzione
Per quanto la quotidianità d’un grande di Spagna e servi d’epoca moderna sia lontana da noi, Le nozze di Figarogioca su un prototipo comico inveterato: un prepotente sfarfalla con le donne altrui e un gruppo di sfortunati, attraverso una serie di equivoci, tramano alle spalle per sbarazzarsene ridicolizzandolo. Fa leva su sempreverdi umanità: sulle meschinità, specie dei potenti; sull’ingegno di un trickster (qui le donne, alleate, che più ancora di Figaro tengono le redini dell’azione); sui desideri, i segreti, i vizi che costellano l’esistenza di chiunque abbia corpo e affettività da soddisfare. Furono i difetti di queste persone (non personaggi) a determinare la penetrazione capillare in Europa della commedia di Beaumarchais prima e dell’opera buffa di Mozart e Da Ponte poi. Opera buffa. Perché, come i più grandi geni, Mozart e Da Ponte erano degli irriducibili burloni. Le Nozze sarebbero capaci di risvegliare persino le pellicce; devono farci saltare dalle poltrone: farci sbellicare! Il pubblico del Teatro Verdi, venerdì sera, è rimasto silenzioso. Siamo della scuola di pensiero che se hai le poltrone addormentate non è colpa dello spettatore che non è abbastanza dotto o non presta attenzione. È responsabilità della regia catturarlo. Cosa è andato storto nella visione di Ivan Alexandre? In scena un ingombrante patio da cui pendono veli con stampate scritte “vergate a mano” (comprese le canzonette di Cherubino e Susanna: scelta pericolosa, l’immobilizzare in scenografia oggetti di scena così ballerini), quasi replica una ribalta sulla ribalta costringendo l’azione (che deve essere in molti punti frenetica e concitata), inadeguatamente montatavi sotto e attorno, in uno scomodissimo sottopalco per nascondiglio e angusti corridoi laterali. Perché la Contessa è così defilata, praticamente in una quinta, anziché sul proscenio mentre Almaviva le chiede perdono? Criminalmente anticlimatico. Ma il peggior problema della regia (vizio di molte produzioni contemporanee) non è meramente un cattivo uso dello spazio scenico e della prossemica. Il problema è il completo il menefreghismo per le necessità della drammaturgia. Ancora, perché far da Figaro lanciare i garofani dietro Cherubino che corre via in giardino, anziché far sì che vi atterri, calpestandoli, saltando giù dalla finestra? E perché Antonio (se proprio vogliamo vederlo scoprire i fiori rovinati) arriva tardi e non vede nessuno saltar giù, se deve poi dire al Conte “a me parve il ragazzo”? Ma non è il caso di elencare. Quel che conta è che libretto e partitura contengono indicazioni di regia palesi e ben precise sfuggendo alle quali tutto risulta immotivato. È grave che un regista d’opera lirica non possegga queste competenze. Non si conosce l’italiano? Si ingaggi un traduttore. Sintomo primo e riprova di una regia incapace, è il dar agio a sprovveduti istrionismi di rompere l’equilibrio scenico: il più grande difetto, ci duole dire, proprio il Figaro, un cabotin incapace di dar vita a un personaggio così ben scritto perché troppo impegnato a dar sfogo alle manie saltellanti del proprio stinco, agli sfarfallii retorici della mano, a consunte e pleonastiche pose da Arlecchino a commento di un’azione che si sfilaccia nelle scene in cui egli è presente, e che funziona palpabilmente meglio soprattutto con le interpreti di Cherubino, Barbarina, Susanna, che conoscono la differenza tra cantare e recitar cantando, e soprattutto conoscono l’etica dello star insieme in scena.