di Olga Chieffi
Leopoldo Fregoli si spense a Viareggio nel 1936, lo stesso anno in cui Sergej Prokofiev compose la favola musicale “Pierino e il lupo”. Una coincidenza, questa, racchiusa nel ritorno a Salerno di Arturo Brachetti, il più famoso e amato erede di Fregoli che, al Premio Charlot, ha proposto il capolavoro del genio russo con l’Ensemble Symphony Orchestra, diretta da Giacomo Loprieno, una formazione giovane e brillante, che ha saputo ben reggere bordone alle infinite corde del fantasista. Arturo Brachetti, pur su di un palco poco adatto alla sua arte, che ama una ribalta animata da ombre, è riuscito a ricreare quel caleidoscopio di sogno, gioco, luce, ritmo, musica, colore, poesia, che contraddistinguono ogni sua performance, esibendo per intero il ventaglio di manualità, dalla prestidigitazione alle ombre cinesi, in un crescendo di godimento e stupore. Impermeabile, pelata, occhiali tondi, ecco sortire Arturo, nei panni proprio di Sergej Prokofiev e redarguire l’orchestra che stava eseguendo musica viennese, mettendo loro sul leggio le parti di “Pierino e il lupo”, musica en travesti, proprio come il nostro Arturo. Eccolo, poi, trasformarsi in Pierino, il protagonista della storia, insieme a tutte le sezioni e agli strumenti dell’orchestra, che danno vita ai vari animali, ai cacciatori e al nonno, il quale, ci ha fatto ritrovare il nostro, tante volte sotterrato, cuore di fanciullo, scomparendovi magicamente dentro, felice. In quel 1936, in sintonia con la temperie di un’epoca socialmente agitata, non mancarono i critici che riconobbero in Pierino il nuovo uomo sovietico (pragmatico, positivo, coraggioso e realista), nell’anatra il borghese (pavido, e con tutte le sue paure, intraprendente) nei cacciatori i socialisti pronti a sollevare fragore, a scatenare rumore. Ma, “Pierino e il lupo” non è una metafora da parafrasare, né lo specchio di un’attualità dentro cui riflettersi è solo una universale pagina di musica di un compositore al quale mai vennero meno il decoro e la fulminante capacità inventiva. Così, tra ogni delirio di trasformismo, sotto il ciuffetto che non chiede altro che di prendere fuoco, gli occhi di Arturo, sono andati subito in fiamme, pregustando il prossimo tiro mancino al lupacchione. E quegli occhi non lasciano un istante, il pubblico, come quelli di un bambino che aspetta il momento di disattenzione per gustare ciò che è vietato. Un bambino un po’ inquietante a forza di perfezionismo e che, ben sapendolo, si sforza di mostrare quanto possa essere così semplice e gentile, salvando il lupo divenuto vegano, in un bel parco naturale, non disdegnando termini e situazioni “fuori ordinanza” e qualche battutastra da avanspettacolo. Ed ecco le caricature delle tre massime scuole di direzione, intercalate da tre Caroselli di finissima ironia. Il direttore francese, che va a concertare intimando la legeresse per l’esecuzione della “Pavane” di Gabriel Faurè, di romantica sensualità, un novello Von Karajan, per la celeberrima, Der Ritt der Walküren, citando l’epocale battuta di Woody Allen in Misterioso Omicidio a Manhatthan “Ogni volta che lo sento (Wagner) mi viene voglia di invadere la Polonia!”, per chiudere col genio folle americano, evocante Andy Warhol e sfociato in un teatrale Freddie Mercury, interprete di We Will Rock You. Quindi, si è passato alle Variazioni sopra un tema gioviale che Nino Rota compose nel 1953. L’ autore, da sempre attratto dalle scienze esoteriche, intese conferire alla parola “gioviale” il suo stretto significato astrologico, riferendosi a Giove, inteso come pianeta del benessere e della serenità e il nostro Arturo ha dato prova di essere anche un eccezionale sand artist, disegnando i 12 segni zodiacali, sui numeri del pezzo musicale, eseguito perfettamente dall’orchestra. Finale fuori climax, con un omaggio ai cantautori italiani fino alla “Guerra di Piero”, di Faber, del quale Arturo ha schizzato un ritratto, canzone durissima, non una favola, ma simbolo della volontà di realizzare un sogno.