Sigillo di Valerio Malorni sulla IV stagione di MutaversoTeatro, firmata da Vincenzo Albano. Un cartellone sempre in crescendo per proposte e pubblico. Già al lavoro il direttore artistico per la quinta annata che segnerà il primo vero tassello della nuova angolazione di vedere il teatro in città
Di Gemma Criscuoli
La deriva delle idee, dei ruoli, delle vocazioni non solo artistiche, della politica, dell’ambiente, delle relazioni. In confronto a questa catastrofe spirituale prima che materiale, le acque scatenate sul mondo dalla collera di Dio sono una passeggiata. Non resta che esporsi fino alla scarnificazione in attesa di una rinascita. Allestimento che richiede un totale coinvolgimento emotivo, “L’uomo nel diluvio”, interpretato da Valerio Malorni, che ne ha curato l’ideazione, la drammaturgia e la regia con Simone Amendola, ha concluso presso il Centro Sociale di Salerno la quarta stagione di Mutaverso, il progetto artistico curato dalla Erre Teatro di Vincenzo Albano. Mentre fissa una distanza ignota in un completo nero di cui ben presto si sbarazzerà invocando aiuto, sorreggendo un enorme orologio che incombe senza fare sconti a nessuno, il protagonista spiega le fasi del proprio spettacolo, dove su un’arca di cartone, fragile simbolo di sicurezza puntualmente vanificato, sono proiettate le immagini di Berlino, dove lo ha condotto un’estenuante insicurezza economica. La disumanizzazione, che sottrae anche solo l’illusione della stabilità, crea un clima apocalittico che non ha bisogno del frastuono di un vero e propria cataclisma, ma consuma silenziosamente l’ossigeno di chi vorrebbe scrivere una storia diversa; la propria, per esempio. La finzione teatrale è continuamente infranta, perché solo recuperando la propria essenza, quella dell’animale da palcoscenico, Malorni, infinitamente più solo di quanto non lo fosse Noè, saprà comunicare anche al popolo tedesco la necessità di superare l’orribile sensazione di essere messo all’angolo da una vita insensata. I frammenti tratti alla fine della pièce da “Cantando sotto la pioggia” sono una beffarda risposta che la commozione di riscoprirsi umani offre all’aridità dei nostri tempi. L’incongruenza del linguaggio, ponte pericolante tra il soggetto e le cose, ha caratterizzato questa stagione di Mutaverso. “Farsi silenzio” di Marco Cacciola rincorre negli incontri casuali e inattesi la necessità di una comunicazione che non dimentichi la pienezza dell’essere. “La buona educazione” della Piccola Compagnia Dammacco con Serena Balivo racconta sarcasticamente quanto l’etica sia difficilmente comunicabile. Ne’ “I giganti della montagna atto III” di Principio Attivo Teatro il divario tra la massa e l’arte è implacabile; in “Vieni su Marte” della Compagnia Vico Quarto Mazzini l’urgenza di essere altro altrove nasce anche da uno scollamento tra l’io e il tutto e in “Socialmente” di Francesco Alberici e Claudia Marsicano l’ossessione nei confronti del virtuale è una resa del segno alla nevrosi. Ne “Il bambino dalle orecchie grandi” di Teatrodilina le parole non sono che proiezione delle proprie illusioni e in “Docile” della Compagnia Menoventi la libertà di espressione e di azione deve fare i conti con il peggiore tra i bari, cioè il caso. “Come va a pezzi il tempo” di Progetto Demoni è un’antinarrazione in cui il fallimento delle parole si mescola alla necessità che la memoria possa rifiorire da se stessa e anche la messinscena di Amendola e Malorni è un tentativo di restituire fertilità alla condivisione di sensazioni calpestata da una sostanziale estraneità all’umano. Il teatro, del resto, è chiamato a questo compito: affrontare ed esorcizzare ciò che lo spettatore preferisce nascondere a se stesso.