Di RENATO SANTOLIA
“Lo sport e il teatro sono molto simili perché sono due forme di espressione dove si ha un ruolo”, affermava Carmelo Bene. Che fra il teatro e lo sport esistano da sempre profonde affinità e anche forti rivalità, è cosa nota. Del resto, gli sport debbono essere considerati un genere di spettacolo dal vivo e, per parte sua, il teatro ha sempre contenuto a più livelli una dimensione competitiva, agonistica, a cominciare dal fatto che nella Grecia antica le tragedie e le commedie venivano presentate in vere e proprie gare, con tanto di vincitori e di premi. Fra le tante testimonianze, spicca quella del grande commediografo Terenzio, che nel prologo di una sua commedia si lamenta della volta in cui il teatro in cui veniva rappresentato rimase quasi vuoto perchè tutti gli spettatori erano corsi a vedere i pugilatori. Tra Medioevo e Età Moderna, si dettero nuovi intrecci fra sport e teatro: basti pensare ai tornei, i quali nascono come vere e proprie gare cavalleresche, tendenzialmente cruente se non mortali, e finiscono per diventare una forma di spettacolo, uno dei momenti più partecipati delle feste di corte fra ’400 e ’500, pur non perdendo del tutto l’aspetto di competizione -fino all’esito seicentesco dell’Opera -torneo, ospitata addirittura sul palcoscenico, come accadde ad esempio al Teatro Farnese di Parma nella prima metà del XVII secolo. Questa storia antica di affinità, intrecci e rivalità conosce da oltre un secolo un capitolo del tutto nuovo, al quale ancora apparteniamo. Questo capitolo inizia con la nascita dello sport moderno, sancita dalla prima Olimpiade moderna, che si svolse a Atene nel 1896. E’ interessante notare come gli sport rinascano nel clima di quella Körperkultur, vera propria “riscoperta” del corpo, che caratterizzò a tutti i livelli la società europea, anzi occidentale, a partire dalla fine del XIX secolo, e che ebbe importanti ricadute anche in campo teatrale (con la danza a far ovviamente da pioniera: si pensi almeno a Isadora Duncan), mettendo al centro dell’attenzione il corpo dell’attore e quindi la necessità del suo addestramento fisico. Se andiamo a guardare i programmi delle nuove scuole di teatro, che nascono un po’ ovunque in Europa e in America, sulla scia di quelle di ritmica e di danza aperte rispettivamente da Jaques-Dalcroze e da Laban, e soprattutto degli Studi inaugurati da Stanislavskij a Mosca a partire dal 1911, restiamo colpiti nel constatare come esse pullulino letteralmente di discipline fisiche e di veri e propri sport: ginnastica, ritmica, scherma, boxe, acrobatica, etc. Ad esempio, nella sua scuola pietroburghese di via Borodinskaja, verso la metà del secondo decennio del ’900, Mejerchol’d prescriveva ai suoi allievi danza, atletica leggera e scherma, mentre il tennis, il lancio del disco e la vela venivano consigliati! E nel decennio successivo, quando varerà la Biomeccanica, accanto a numeri circensi e alle arti marziali orientali egli inserirà anche veri e propri esercizi sportivi, dal lancio della pietra al tiro con l’arco, al salto sul petto. Per farla breve, l’”uomo di sport” (titolo di un celebre ciclo figurativo del mimo Etienne Decroux) si impone come uno dei modelli dell’attore nuovo, assieme al lavoratore manuale e all’artigiano: si tratta, in tutti questi casi, di maestri dell’azione fisica intesa come azione reale (non realistica), ai quali gli aspiranti attori debbono carpire il segreto della coscienza e conoscenza corporee per poter arrivare a conferire credibilità ed efficacia al proprio agire scenico. E non si fa fatica a capire come, in un clima del genere, il pugile Georges Carpentier, detto l’”uomo orchidea” per la sua bellezza e per l’eleganza della sua scherma boxistica, uno degli inventori del pugilato moderno agli inizi del secolo scorso, sia potuto diventare un riferimento ideale anche per molti uomini di teatro, da Jacques Copeau al già citato Decroux, che ne parla come di una delle fonti d’ispirazione fondamentali per il mimo corporeo (su Georges Carpentier e altre vicende della boxe legate alla scena contemporanea. Una delle immagini più belle ed efficaci ce l’ha lasciata, anche in questo caso, Antonin Artaud, quando -nel libro Il Teatro e il suo doppio (1938)- parla dell’attore come di un “atleta del cuore” e definisce una sorta di allenamento teatrale di base in termini di “atletismo affettivo”.