Di ARISTIDE FIORE
Cenavo nel soggiorno guardando la televisione. Se ben ricordo, trasmettevano una partita di Serie A in differita: si affrontavano l’Inter e la Juventus. Allora il calcio mi interessava. Avevo undici anni e proprio quella domenica, il 23 novembre del 1980, ero stato per la prima volta allo stadio. Avevo avuto il permesso di andare a vedere Salernitana-Turris al Vestuti coi compagni di scuola. Indimenticabile la vista della curva sud, i cori, l’odore dei fumogeni, sebbene la memoria di quella giornata sia poi stata ovviamente monopolizzata dall’evento terribile che seguì. Non dimenticherò neppure che era insolitamente calda per quel periodo. La mattinata era trascorsa tra la fila per acquistare il biglietto attraverso le finestrelle quasi carcerarie del botteghino e un lungo girovagare sul Lungomare, col gelato, in attesa dell’ora di pranzo. Quel caldo fuori stagione restò associato a ciò che sarebbe accaduto più tardi, cosicché per alcuni anni, riproponendosi, mi avrebbe trasmesso ogni volta un po’ di inquietudine. Dunque, come dicevo, me ne stavo lì a guardare la partita, con la soddisfazione di aver vissuto pienamente la giornata calcistica. Nel pomeriggio la squadra locale era riuscita a pareggiare all’ultimo minuto. Nel frattempo, coi miei compagni mi ero spostato dai distinti alla curva nord, con la speranza di vedere il goal granata. Quando arrivò, lo festeggiai con un’euforia mai provata, quasi come se avesse decretato la vittoria. Più tardi, quella partita in tv, che avrebbe dovuto essere il coronamento della mia domenica sportiva (pregustavo anche l’omonimo programma sportivo, che per ovvi motivi non avrei potuto guardare) fu disturbata dalla porta del balcone, che incominciò a sbattere come se ci fosse un vento fortissimo. Appena mio nonno vi si avvicinò per serrarla meglio, si spalancò e la casa cominciò a oscillare. Prima che andasse via la luce, feci in tempo a vedere, mio nonno indietreggiare e ricadere sulla poltrona, anch’essa in movimento, almeno così mi era sembrato. Mi ritrovai di colpo al buio, nel vano di una porta, a piangere e tentare di pregare abbracciato a mia nonna per quei secondi interminabili, mentre la casa tremava e risuonava come se ci passasse attraverso un treno. Quando finì, a parte il panico persistente, fu come un semplice black-out: si accesero delle candele e poi si cercò di guardare fuori per capire se ci fossero danni. Casa nostra aveva retto. Eravamo in Via Madonna del Monte, al quinto piano: l’altezza, che aveva fatto oscillare la struttura un bel po’, ci avrebbe consentito di osservare un’ampia porzione di città. Fuori però era tutto al buio, tranne forse qualche luce di emergenza, qualche impianto indipendente nell’area del porto e ovviamente altre candele, che illuminavano tenuamente i vani di altre case. Mi pareva di scorgere un polverone in corrispondenza del centro storico: pensai con sgomento a qualche crollo. Arrivò mio padre, che era appena tornato, col resto della famiglia, dalla messa e dalla visita a suo padre e sua zia. Era senza fiato, non tanto per essere salito di corsa a piedi, ma piuttosto per lo spavento: aveva visto il palazzo oscillare, le serrande agitarsi come se ci fosse un ciclone. Appena accertatosi che stessimo bene si mise al telefono. Riuscì a chiamare gli anziani parenti che aveva lasciato da poco, nella loro casa in Via Sant’Eremita, e accertarsi che, a parte lo spavento, stessero bene. Di lì a poco le linee telefoniche si sarebbero intasate e avrebbero smesso di funzionare. Si decise di passare la notte fuori. Stipati in sei in un’automobile, anche con la gabbia di Pizzirì, il canarino, riuscimmo a trovare posto alla fine della strada, presso la chiesetta della Madonna del Monte, nel piazzale sottostante. Sotto di noi la ferrovia. Da lì si vedeva, per modo di dire, quasi tutta la città. C’erano poche automobili oltre la nostra. Del resto lo spazio era piuttosto limitato. La maggior parte della gente se ne stava semplicemente all’aperto, discutendo e ascoltando qualche radio portatile. Ogni tanto mi mescolavo a loro e cercavo di carpire i loro discorsi. Non riuscivo a dormire e avevo spesso bisogno di uscire dall’auto per andare a orinare in qualche angolo appartato. Sarà stato un effetto del nervosismo. Pian piano si ricostruiva quanto accaduto. Si diceva che il terremoto fosse stato molto forte e avesse colpito soprattutto l’Irpinia. Nel frattempo mio padre si era avventurato nel centro storico per raggiungere Via Sant’Eremita. Sarebbe tornato più tardi con buone notizie, almeno per noi. Il giorno seguente ci si organizzò meglio. Si decise di spostarci fuori città, presso seconde case di parenti, prima a Paestum e poi nel Cilento. Ripensandoci, somigliava più allo sfollare dei tempi della guerra, vissuto da mio padre da bambino, quando si tentava di sfuggire ai bombardamenti e alla fame spostandosi in campagna. Stavolta si riteneva che delle costruzioni basse, piuttosto recenti e senza altri edifici addossati, sarebbero state più sicure, soprattutto pensando a me e a mia sorella, che aveva appena due anni. Queste sistemazioni provvisorie furono un’occasione per ritrovarsi tra parenti e stare insieme un po’ più a lungo, condividendo i pasti e delle serate trascorse parlando e giocando a carte, come se si fosse tornati indietro, al tempo in cui non c’era la televisione. Al centro dei discorsi c’era ovviamente una tragedia le cui proporzioni immani si andavano chiarendo di ora in ora. Qualcuno, fra i più giovani, non resse a quel clima conviviale e partì alla volta dei centri più colpiti. L’apporto del volontariato sarebbe stato fondamentale. Mi ero trovato di colpo a vivere in prima persona avvenimenti che, prima di allora, mi avevano già spaventato a distanza: il Friuli, l’Umbria. Stavolta avevo vissuto un terremoto. Prima di addormentarmi fissavo il soffitto, quasi per accertarmi che non si sarebbe mosso. Avevo ancora una casa, sia pure con danni trascurabili, ma quella scossa al buio e quel girovagare per la provincia con la radiolina accesa, che in fondo era durato pochi giorni, mi aveva reso compartecipe di una piccola parte del dramma che si stava consumando tra Campania e Basilicata, e che era già stato vissuto in altre regioni, in anni non lontani.