di Giulio Corrivetti
Un senso di smarrimento mi pervade all’idea di riappropriarsimi della libertà di movimento, all’idea di uscire e di tornare alla mia vita di prima. Dottore, perché? Per spiegarcelo, questo senso di smarrimento dobbiamo innanzitutto capire a fondo che periodo abbiamo vissuto. Quanto resterà in noi di questo fenomeno che ci ha attraversati, interrotti come un’onda progressiva, allargandosi a tutto il pianeta ed a tutto il genere umano? Quante paure saranno rimosse da alcuni di noi e quante limitazioni, invece, rimarranno nonostante il riemergere alla libertà ed alla vita? Siamo stati coinvolti tutti in una condizione insolita, imprevedibile ed assolutamente unica, che la storia non ricorda. Siamo tutti stati sospesi nel vuoto e nell’attesa che il pericolo si allontanasse. Non c’è memoria, in coloro che hanno vissuto le ultime due guerre mondiali, di una restrizione ed dell’isolamento come siamo stati costretti a vivere in questi ultimi tre mesi: una perdita delle relazioni, un impedimento a piangere insieme la perdita dei nostri cari, lo sconvolgimento del contesto sociale. Anche proteggersi dalle bombe era, in guerra, una azione collettiva. A noi è toccata una perdita delle relazioni, totale ed a lungo nel tempo. L’attuale sospensione dal mondo, indotta dall’emergenza COVID-19, più di quanto sia accaduto nei periodi di guerra, ha privato noi tutti del contatto umano. L’uomo è apparso il maggior pericolo e la potenziale minaccia per l’altro. Il paesaggio lunare assunto dalle strade e dai contesti urbani rimarranno nei nostri occhi a lungo. Si stima che in questi mesi successivi alla pandemia, circa 300.000 persone in più chiederanno aiuto alle strutture deputate alla tutela ad alla cura del disagio psichico. E così, abbiamo potuto riscontrare nelle immagini televisive, nelle strade dei centri urbani e nei racconti delle persone due opposti comportamenti reattivi alla lunga fase di deprivazione e di riduzione dell’esistenza determinata dalla epidemia da SARS-Cov2. Da un lato abbiamo assistito all’immediato affollamento dei luoghi del maggiore riconoscimento sociale: la movida, le piazze, il centro vitale delle nostre città, dall’altro il desiderio di allungare il periodo di protezione nella tana, di chiusura nella nicchia ecologica costituitasi nelle nostre case. Quelle case divenute, a forza o a ragione, dei mondi vividi di rituali protettivi e di rassicuranti, intime abitudini, Niente di più rassicurante e di più terapeutico del perimetro solido del contenitore domestico. la sindrome della capanna da un lato, e la movida dall’altro, sono due aspetti reattivi alla lunga immersione nell’atmosfera del rischio e del pericolo. L’effetto esplosivo del pericolo vissuto e del rumore delle nostre angosce più profonde. Oggi le scene della movida sono l’immagine più disinvolta, con il suo prorompente desiderio di libertà e di normalità, e rappresentano la rimozione e la negazione del rischio e delle paure percepite durante il distanziamento indotto dal coronavirus, mentre il bisogno di sopravvivere nel silenzio e nella lentezza dei ritmi domestici, rappresenta la espressione della vulnerabilità e della estensione fobica della paura, quando essa prescinde la reale sussistenza di un pericolo.E questa ultima condizione, altrimenti definita come “la sindrome della capanna”, ci riguarda un po’ di più e merita un maggiore approfondimento, in quanto espone maggiormente alla sofferenza e può determinare maggiori limitazioni e danni a chi ne sta manifestando oggi i vissuti ed i comportamenti di difesa. Questa definizione appare già all’inizio del secolo scorso e la provavano i cercatori d’oro che negli Stati Uniti trascorrevano interi mesi in una capanna e, sperimentavano il rifiuto di tornare poi alla civiltà e la sfiducia nel prossimo, stress ed ansia. Anche i guardiani dei fari, sovente, manifestavano questi sintomi riprendendo la loro normale vita in famiglia e nelle loro abitazioni. Oggi gli psicologi hanno descritto questo quadro per descrivere ciò che molti stanno vivendo nella ripresa dall’isolamento per l’epidemia. “Non ho, poi, tanta voglia di uscire…”, “…resto a casa ancora un pò, …d’altronde chi mi obbliga a riprendere il mio vecchio ritmo..” ovvero frasi del tipo “comincio ad aver paura sulla soglia di casa…. torno indietro e mi svesto di nuovo…. tanto non è necessario che esca” eccetera eccetera. Sono tantissime le testimonianze che sentiamo emblematiche di comportamenti di evitamento sociale o di vere e proprie estensione delle paure “al di là del COVID” Questa condizione rappresenta una costruzione reattiva, di tipo fobico, a dei rischi che in maniera sproporzionata vengono vissuti come enormi, pericolosi, incontrollabili”. Ciò che è certo è che i disagi psichici della Fase 2 e della Fase 3 di ripresa da questa terribile epidemia già emergono prepotenti sia in coloro che sono stati costretti a vivere in isolamento per malattia o convalescenza, sia in chi ha una subito una situazione di solitudine relazionale e, non in ultimo, nei tanti operatori sanitari che sono stati esposti a massacranti ed eroiche situazioni di stress e di “lavoro di trincea”. “E’ mai possibile che oggi che ci viene permesso tu non abbia più voglia di uscire?”. Certo, non solo è possibile, ma comprensibile e, tanto tanto, evidente. In realtà, per molti può rappresentare il semplice desiderio di una vita dai ritmi meno frenetici e più a misura d’uomo. Sì, per molti si presenta semplicemente così, con il desiderio di non modificare lo status quo e di restarsene tranquilli e protetti in casa.Ma per tanti altri la “Sindrome della capanna” si manifesta con ansia, malinconia, demotivazione e demoralizzazione, fino a veri e proipri comportamenti da stress al tentativo di uscire e di rimettersi in moto, alla prospettiva di riattivare la propria vita in una prospettiva più dinamica e rumorosa. Questa sindrome è generalmente associata alla paura di abbandonare il perimetro dei propri confini sicuri e, addirittura alle difese fobiche immaginate dalla possibile esposizione al virus. Certamente l’epidemia ha rappresentato il fattore di scatenamento, ma, in molte delle persone che ne soffrono, l’evento traumatico ha svolto semplicemente il ruolo di effetto scatenante e di fattore di slatentizzazione di precedenti paure e di fobie che si erano contenute in un equilibrio sottile, ma funzionale ad una vita regolare.La paura all’idea di uscire nuovamente in strada, l’ansia di dover riprendere i nostri impegni al di fuori delle pareti domestiche, la sensazione che in casa abbiamo tutto quello che ci serve e che, a questo punto, non cambi nulla allungare la quarantena di qualche settimana è una quasi naturale conseguenza del fatto di aver trascorso tante settimane isolati. Il nostro cervello si è adattato a quella sicurezza che troviamo solo tra le quattro pareti domestiche. Consideriamo anche il fatto che il Coronavirus non è scomparso e che Il rischio di contagio è ancora presente ed è comprensibile che la paura di ammalarsi aumenti l’insicurezza e il timore di uscire. La sindrome della capanna è definita in inglese, Cabin Fever ed era stata descritta già all’inizio del ventesimo secolo. Essa, generalmente è destinata ad attenuarsi gradualmente fino a scomparire in maniera spontanea. In una piccola percentuale di casi può diventare un sistema stabile di funzionamento intriso di paure e di ritiri dal mondo da diventare un danno ed una vera sindrome comportamentale di difesa. Però, una riflessione dettata da questi casi appare opportuna: i ritmi frenetici della vita moderna, quella prima del Coronavirus, e che probabilmente riprenderemo da qui a breve tutti, il turbinio di emozioni e di attività senza sosta, che spesso ci ha allontanato dal tempo vissuto per sé stessi e per il proprio ozio creativo, ci hanno profondamente mutato, adattandoci ad una identità innaturale e distorta. Tutti a ripetere “Non ho tempo… .adesso vado di fretta….la prossima volta”. La mancanza di tempo è stato il leitmotiv dei nostrri alibi. Poi la pandemia ci ha bloccati nella paura e, come per incanto, abbiamo scoperto (almeno alcuni) una dimensione preziosa, a lungo ignorata: la lentezza. Con il lockdown abbiamo ritrovato il piacere di ritmi più umani. Proprio questo può spiegare che, quando finalmente la condizione di restrizione sociale è finita, l’idea di ricominciare con la vita di prima non appare più come un bisogno primario. Nostalgia della lentezza e del silenzio, consapevolezza delle diverse possibilità di vite alternative. Vista così, la sindrome della capanna può apparire come una sana opportunità di cambiamento, piuttosto che come una malattia da curare.Ciononostante, come comportarci in questi casi, e soprattutto come si devono comportare i familiari: è fondamentale darsi tempo e non drammatizzare. In fondo, nella maggior parte dei casi la “Sindrome della Capanna” è una manifestazione psicologica passeggera. Essa descrive una reazione psicologica, emotiva, normale. Pertanto, è prioritario non alimentare ansie e paure aggiuntive di riflesso. Si rinasce alla vita a piccoli passi prendendosi tutto il tempo necessario, magari iniziando ad arrivare al portone, anche senza uscire, inizialmente, e poi, con la dovuta calma, ed accompagnati, iniziare a muovere i primi passi intorno al perimetro di casa.Non ci spaventiamo, mi raccomando, per tutti, forse, speriamo, quanto ci è accaduto potrà rappresentare l’alba di una nuove e diversa normalità.