di Silvia Siniscalchi
L’immagine del bambino che gioca, antico topos letterario, è sempre più densa di implicazioni filosofiche, pedagogiche, sociologiche, storiche e, più di recente, geografiche. In questa figura, per alcuni versi, si inserisce anche quella dello sport, inteso come gioco integrale ordinato da un sistema di regole codificate e, allo stesso tempo, correlato a più estesi ambiti esistenziali. Non a caso esistono consolidati studi che interpretano le ricadute delle attività sportive in sfere disciplinari trasversalmente comunicanti, nei diversi contesti territoriali, culturali, ideologici, politici, economici e via enumerando. È sul filo intricato di questa complessa trama di relazioni che Michele Spiezia, giornalista del quotidiano “La Stampa”, ha sviluppato l’idea di ripercorrere trent’anni di storia italiana, dal 1969 al 1998, attraverso la lente multi-prospettica delle vicende sportive del nostro Paese, che a quella storia sono correlate in maniera profonda e non sempre palese. Nel suo libro “Di oro, di fango e di piombo” (Coltura Edizioni, 2024), efficacemente illustrato da Daniele De Crescenzo, il giornalista sportivo è uscito dal recinto rassicurante di un mondo chiuso in sé stesso per aprire le porte alle vicende storiche del più vasto e inquietante universo di cui fa parte. Di questo e di altri aspetti si è parlato a Ravello, nei Giardini del Monsignor Giuseppe Imperato, per la rassegna “Ravello Book. Storie di libri”, con i saluti introduttivi del Sindaco Paolo Vuilleumier e di Luigi Mansi, Assessore alla Cultura del Comune di Ravello, promotore dell’iniziativa.
Nella quiete di questa splendida cornice i giornalisti Antonio Giordano e Andrea Manzi, moderati da Emiliano Amato, hanno parlato del libro, dialogando con l’Autore. Un incontro che, attraverso le pagine di Spiezia, ha rievocato le origini di una lunga e consolidata amicizia umana e professionale il cui inizio è legato alla nascita a Salerno, nel 1996, del Quotidiano La Città, definito da Antonio Giordano il frutto di un lampo di genio. Fondato e diretto da Manzi fino al 2002, il quotidiano è stato infatti la palestra in cui Spiezia, prima come collaboratore esterno e poi come redattore e inviato per il gruppo Finegil-L’Espresso, ha acquisito la competenza tecnica del cronista sportivo e l’abitudine a leggere e interpretare gli eventi dello Sport in maniera più ampia e complessa.
Il suo libro – ha osservato Giordano – nasce idealmente già nel 1996, quando i giornali erano ancora un terreno di confronto e di riflessione, ma anche di competizione “sportiva” nell’agone dell’informazione locale. Resta in tal senso scritto nella storia del giornalismo lo storico sorpasso a Salerno de La Città sul Mattino, che Giordano ha paragonato a una scalata a mani nude del Monte Bianco. È difatti proprio in questo contesto di forte impegno professionale che Michele Spiezia è diventato un giornalista ma anche uno scrittore: al primo posto della sua scala di valori professionali è subito emersa l’arte dello scrivere bene, in maniera energica e allo stesso tempo curata, fissando sulle pagine il tempo di un match che, come la vita, scorre tra le dita. Un’attenzione alla scrittura che è anche rispetto dei lettori e che, nella vorticosa successione delle informazioni dell’attualità non esiste quasi più, nemmeno nelle redazioni dei più importanti quotidiani nazionali. Redazioni in cui – gli ha fatto eco Spiezia – il lavoro iniziava dopo la chiusura del giornale, allorché redattori e direttore si confrontavano sulla impostazione del quotidiano del giorno successivo, mentre oggi tutto corre sul filo della produzione rapida e superficiale dei contenuti, coinvolgendo anche lo Sport nella logica del profitto e del commercio, come dimostra lo sviluppo esponenziale del mondo aziendale e dei forti interessi economici da cui è circondato.
Delle doti narrative di Spiezia ha parlato quindi Andrea Manzi, ricordando che il giornalismo sportivo non è figlio di un dio minore, nonostante l’attuale proliferazione di molti pseudogiornalisti che non ne onorano la tradizione. E il libro di Michele Spiezia si distingue non solo perché opera di un giornalista di vaglia ma anche per il suo valore intrinseco. Non è infatti un libro di sport, dedicato cioè a una ristretta koinè di appassionati del settore, praticanti o meno, solitamente separata dal resto del mondo e, proprio per questo, poco apprezzabile. È invece la ricostruzione sapiente di eventi sportivi e di storia del nostro Paese, in cui i valori e i contenuti dello Sport sono messi in relazione con quelli nazionali. L’operazione di Spiezia è quindi innanzitutto di carattere intellettuale: supera l’attualità che vede la maggior parte dei commentatori sportivi quotidianamente presenti in TV, impegnati nella sterile replica dell’hic et nunc, degli eventi del giorno prima, senza alcuna riflessione. Solo pochi sono i giornalisti capaci di interpretarne e contestualizzarne il significato più autentico, apportando nuovi elementi di conoscenza, svelando retroscena e interessi in gioco, sulla scia della scuola di Osvaldo Soriano ed Eduardo Galeano. Lo Sport nel libro di Spiezia è invece un laboratorio di osservazione sulla Storia, il ‘fil rouge’ di un racconto che attraversa tempi e vicende apparentemente distanti ma che invece con gli eventi sportivi sono intrecciate, anche in maniera tragicamente casuale. È il caso del ragazzo che sogna di diventare calciatore ma che perde le gambe nell’esplosione stragista della BNA di Milano. Analogamente i mondiali di calcio si incrociano con gli avvenimenti storico-sociali coevi: la crisi petrolifera, il terremoto del Friuli, la svalutazione della Lira, le stragi neofasciste, il terrorismo di sinistra, la morte di Falcone e Borsellino, solo per fare degli esempi. Allo stesso modo lo Sport si trasforma nell’incubatore del senso patriottico italiano ma anche nell’osservatorio delle contraddizioni, dei misteri, delle ingiustizie, degli errori giudiziari – come avviene nel tragico caso di Enzo Tortora – del nostro Paese.
Spiezia riporta così il giornalismo in una dimensione di comunità e non di community, di storia e non di storytelling, ripercorrendo, pur senza averle conosciute per la sua età anagrafica, alcune delle istanze del giornalismo democratico degli anni Settanta del Novecento. Il suo libro è difatti anche un omaggio all’utopia, intesa, sulla scia dell’insegnamento di Galeano, come un orizzonte da raggiungere a piccoli passi, che non va mai perduto di vista.