di Antonello Tolve
L’interesse mostrato da Edoardo Sanguineti per il campo delle arti visive risale forse agli anni del Liceo Classico D’Azeglio di Torino dove ebbe la grande fortuna di seguire le lezioni di Albino Galvano, artista filosofo critico d’arte e attento traduttore di Antonin Artaud. Grazie a questo maestro prezioso («diventammo grandi amici, una volta finito il rapporto scolastico») Sanguineti conosce il pittore Gianni Bertini che lo invita nell’ambiente della rivista fiorentina «Numero» diretta da Fiamma Vigo («Firenze è stato, in qualche modo, il luogo di partenza della mia attività di critico e scrittore») dove entra in contatto con Antonio Bueno che proprio in questo periodo si interroga su una possibile figuratività, magari neometafisica. «Per lui la figurazione era una delle tante vie in qualche modo possibili», ricorderà Sanguineti a distanza di anni. «Allora aveva una sua motivazione, non scommettere sul figurativo nel senso novecentesco della parola, ma in qualche modo, per certi riguardi, era molto vicino a certe cose di Dalì, una pittura “iperdefinita”. Quindi, per quelle sue cose, con elementi di tradizione sicuramente surrealista, lo presentai per la prima volta alla “Bussola” di Torino, nel 1953. Una volta lo presentai anche a Genova», era il 1964, alla «galleria d’avanguardia “La Carabaga”, dove c’era un folto gruppo di pittori, che poi hanno continuato a dipingere, anche se alcuni di loro si sono dedicati poi alla fotografia e alla pubblicità. Allora, avendoli conosciuti, venendo a Genova per un dibattito, mi chiesero di aiutarli nello stabilire delle nuove relazioni, perché si facessero nuove mostre, e alcune di queste le presentai personalmente. Mi ricordo che c’erano, appunto, oltre a Bueno, anche Guido Biasi, credo, e anche Mario Persico e Carol Rama», l’unica «ragazza» dei Santi Anarchici, che già alla fine degli anni Trenta elaborava stridori erotici e eroici. A questo periodo felice, e più esattamente al 1951, risale anche il lungo sodalizio con Enrico Baj («Baj è forse il pittore con cui ho avuto i rapporti più continui») che porterà Sanguineti nell’ambito del nuclearismo milanese. Compagno di strada di scrittori e artisti sin dalla prima metà degli anni Cinquanta del secolo scorso (a Bueno e Baj e Biasi e Persico e Carol Rama si aggiungeranno negli anni Luca Alinari, Emanuele Luzzati, Ugo Nespolo, Antonio Papasso, Francesco Pirella, Gianni Pisani, Marco Nereo Rotelli, Valeriano Trubbiani), proprio quando prende piede lo scontro fra “arte astratta” e “arte figurativa”, Sanguineti è, dal presidio torinese in cui vive, figura di congiunzione non solo con Genova, sua città natale, ma anche con Napoli dove incontra appunto Persico e dove sarà tra i firmatari – significativo tra l’altro anche il nome di Balestrini – del Manifeste de Naples (presentato in occasione della fondamentale mostra Gruppo 58+Baj, tenuta nel gennaio 1959 presso la Galleria San Carlo) con il quale si prendono le debite distanze dall’astrattismo. Tra il 1961 e il 1965, in varie occasioni di critica, Sanguineti è attento a difendere un’atmosfera, se non proprio a disegnare una propria posizione poetica e critica: il tagliente discorso Per una nuova figurazione uscito sul n. 12 del semestrale «il Verri» di Luciano Anceschi o la successiva Risemantizzazione del reale apparsa sul numero 14-15 «Marcatrè» di Eugenio Battisti o ancora le riflessioni sull’arte di Alberto Burri in cui individua il «ritrovamento di una più profonda ed autentica storicità», rappresentano soltanto alcuni degli interventi calibrati dal poeta (che ricordiamo con le sue parole, un «aspirante materialista storico») sul versante di una via seguita anche da Vivaldi e Tadini e Crispolti e Del Guercio. Sono gli anni in cui è tra i Novissimi con Balestrini, Giuliani, Pagliarani e Porta, anni in cui entra nella galassia del Gruppo 63 e in cui consegue finalmente la libera docenza (tra il 1957 e il 1963 passa infatti da assistente volontario a assistente incaricato e dunque a assistente ordinario di Giovanni Getto per poi ottenere la libera docenza in letteratura), anni in cui il Sanguineti poeta e il Sanguineti lettore d’arte mira a tutelare un programma che predilige racconti figurati, magari con morbide e cremose venature o ambiguità surrealiste: «non si tratta […] di deformare il veduto nel senso dell’incontaminato, ma di informare di significati l’abbecedario ottico delle cose che si offrono, degli oggetti del vissuto». Nel 1968, proprio quando si candida alle elezioni per la Camera nelle liste del PCI (Sanguineti è e resterà sempre un gramsciano integrale e incorruttibile), si trasferisce con la famiglia a Salerno, a Torino l’anno prima non gli avevano rinnovato l’insegnamento, dove è incaricato all’Università e dove, nel 1971, poco prima di andare via, diventa ordinario. Qui non solo si irrobustisce il rapporto d’amicizia con Filiberto Menna e Achille Mango, ma nascono anche nuove conoscenze, nuovi legami, nuove compagnie in cui la stella maestra brilla sempre sul versante di un aspetto figurativo che peleva dalla realtà enfatizzandola. «A Napoli, quando ho conosciuto Persico, si era creato questo gruppo, diciamo di “nucleari napoletani”, ammiratori di Baj, al quale si scoprirono vicini nella loro ricerca. Ci fu insomma una grossa intesa tra il nuclearismo milanese e i pittori napoletani. Il gruppo nuclearista napoletano faceva inoltre a quel tempo una rivista, il “Gruppo 58”, che usciva a Napoli, molto bella. Uno di questi pittori, al quale pure ero molto legato, era Guido Biasi, che andò a Parigi e poi morì precocemente; un altro pittore del gruppo è Lucio Del Pezzo, che è vissuto a Parigi e ora risiede a Milano, col quale anche ho lavorato molto. Ma quello con cui ho lavorato più costantemente è stato appunto Persico, anche se poi ci sono stati altri pittori per me importanti, specie della generazione più giovane, come Antonio Fomez, o Geppino Cilento. Cilento lo conobbi negli anni di Salerno, quando eravamo tutti e due molto legati al Partito Comunista; ci siamo incontrati credo per un’occasione politica, perché abbiamo fatto insieme dei manifesti, come quello per la Federbraccianti e quello per il Primo Maggio. Tra me e Cilento si è trattato di una conoscenza “politica”, che poi divenne amicizia, ma quello che ci avvicinò fu questo, una serie di occasioni “impegnate”. Fomez l’ho conosciuto anche lui negli anni salernitani, ma credo che l’amicizia sia cominciata successivamente, in quanto lui è più giovane di Persico e di Biasi; lo conobbi, credo, a Salerno, dopo il ’68. E Salvatore Paladino; ma Paladino lo conobbi poi indipendentemente, forse anche lui quando ero a Salerno, comunque in un periodo posteriore».