Salerno. I riti del Giovedì Santo tra Sacro e Profano - Le Cronache Salerno
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Salerno. I riti del Giovedì Santo tra Sacro e Profano

Salerno. I riti del Giovedì Santo  tra Sacro e Profano

Olga Chieffi

La visita ai cosiddetti Sepolcri del Giovedì Santo è una tradizionemolto cara ai Salernitani. Sull’imbrunire, le famiglie unite oggi usciranno di casa per questa lunga passeggiata nel nostro centro storico, una riconciliazione, con i tempi, i luoghi, i profumi di una città fatta a misura d’uomo. Altissimo è il significato cristiano di questo giorno. Tre, cinque, sette, i numeri dei sepolcri da omaggiare, sempre in numero dispari. Personalmente mi è caro il numero sette, le sette madonne della Salerno longobarda, sette le spade dell’Addolorata. Ma basterebbe ricordare che, come raccontato nella Bibbia, Dio impiegò sette giorni per realizzare la Sua Creazione e che sette sono i giorni della settimana che lo ricordano all’Uomo, che sette sono le note musicali che producono l’Armonia, una parola di sette lettere, per intuire il carattere esoterico di questo numero, sette le strisce che vanno posizionate sulla pastiera. Alle celebrazioni liturgiche pasquali sono stati aggiunti riti popolari. Fra questi, appunto, il pellegrinaggio alle sette chiese e la venerazione verso il sacramento eucaristico, conservato per i giorni di Venerdì e Sabato santo. Il pellegrinaggio alle sette chiese nella sua forma originaria è dovuto a san Filippo Neri: le chiese toccate erano le grandi basiliche romane. Col tempo acquistò un tenore molto penitenziale, spostandosi alla fine della Quaresima e facendo memoria delle tappe di Gesù nel percorso della sua passione. Al medio evo, invece, risale la cosiddetta visita a quello che impropriamente viene chiamato «sepolcro». Al termine della messa “In Coena Domini” si ripone il SS. Sacramento in un altare allestito per la sua venerazione. Testi liturgici antichi dicono che “posto il corpo di Cristo tra due patene, sia portato con ceri e incenso in forma molto onorifica… e sia posto in un luogo a ciò preparato”, fra lumi e fiori. Al termine della celebrazione, l’Eucarestia viene custodita nell’altare della Reposizione e inizia l’adorazione del Santissimo Sacramento che prosegue per tutta la notte fino alla mattina del Venerdì Santo. Proprio quel Venerdì in cui Gesù morì in croce. A Salerno, ancora una volta saranno solo cinque le chiese, naturalmente nel centro storico che terranno aperte le proprie porte aperte e la cattedrale, quest’anno chiesa giubilare pare che ancora una volta resterà chiusa. Scelte strane, queste che vanno anche contro i dettami di Papa Francesco che scriveva proprio che la porta non è solo la porta santa, ma è la grande porta della Misericordia di Dio, una porta bella che deve accogliere il nostro pentimento offrendo la grazia del perdono. La porta deve essere generosamente aperta, e ci vuole un coraggio da parte nostra per varcare la soglia, tutte le famiglie, e la Chiesa intera, devono incontrarsi sulla soglia di questa porta aperta. La Chiesa è stata incoraggiata ad aprire le sue porte, per uscire con il Signore incontro ai figli e alle figlie in cammino, a volte incerti, a volte smarriti, in questi tempi difficili. Se la porta della misericordia di Dio è sempre aperta, anche le porte delle nostre chiese, delle nostre comunità, delle nostre parrocchie, delle nostre istituzioni, delle nostre diocesi, devono essere aperte, perché così tutti possiamo uscire a portare questa misericordia di Dio. Il Giubileo ha sì come simbolo la grande porta della misericordia di Dio ma anche le piccole porte delle nostre chiese aperte per lasciare entrare il Signore. Nell’ultima grande visione di questo Libro dell’Apocalisse, così si profetizza della Città di Dio: «Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno», il che significa per sempre, perché «non vi sarà più notte» (21,25). La città nelle feste si divide sempre tra sacro e profano e anche in questa occasione, particolare non si può fare a meno di vivere quell’eclettismo che la chiesa ha sempre mantenuto. Lo struscio riconcilia innegabilmente col centro storico una passeggiata diventa il momento di socializzazione per eccellenza e non è difficile vedere, mentre si cammina tra la folla, persone che salutano a ogni metro, perché in qualche modo gli abitanti di una città piccola si conoscono quasi tutti tra di loro, un termine, questo, che risale agli anni del Viceregno, quando a Napoli, durante la settimana santa fu imposto, così come era già tradizione in Spagna, il divieto di circolare con cavalli e carri, divieto confinato successivamente poi alla sola via Toledo. I fedeli, che in gran numero osservavano il rito dei sepolcri, erano quindi costretti a circolare a piedi lungo la principale arteria cittadina e visto il gran numero di persone, il passeggio era lento e si procedeva quindi strusciando i piedi lentamente sul selciato ed anche le stoffe ancora rigide dei vestiti nuovi indossati per l’occasione, strusciavano tra di loro producendo un suono sommesso. La vanità per il vestito nuovo, doveva indurre comunque alla misura, mai troppo elegante o troppo appariscente, in particolare per le donne. In modo, dunque, da non creare disagio nel fidanzato. Una passeggiata con uno spirito gioioso e di festa, ma vigili senza distrarre l’attenzione dall’amata, senza sospendere sospetti e gelosie. Quello spirito resta come anche quello della tradizione a tavola ovvero la zuppa di cozze e il tortano dolce, di pasta brioche. Il primo piatto si deve ad una voglia del Re lazzarone, Ferdinando I di Borbone, e le sue celebrate “Cozzeche dint’a Cannola”, ovvero “le cozze nella culla”: la culla in questione sono i pomodori di Sorrento, molto grossi, che accolgono un ripieno di cozze, aglio, capperi, origano, olio, sale, pepe e la famosa muddica atturrata, “peccato” di gola secondo il severissimo Gregorio Maria Rocco, un frate domenicano molto stimato a corte, “più potente a Napoli del Sindaco, dell’Arcivescovo, ed anche del Re”. Ferdinando non può quindi ignorare le parole del frate promettendo di ravvedersi durante la Settimana santa. Il sovrano però non resiste alla tentazione e ordina un piatto con le cozze per il Giovedì santo, più “umile” rispetto ai pomodori ripieni. I cuochi preparano una zuppa di cozze, più leggera, con cozze appunto, olio di peperoncini piccanti e un po’ di salsa di pomodoro. La ricetta si diffonde rapidamente negli ambienti reali e, poi, nella città. Una tradizione totalmente scollegata dalla liturgia che ogni anno ritorna rito collettivo anche qui a Salerno. Chiuderemo il nostro percorso, come da tradizione nell’antica Dolceria Pantaleone. La tradizione è quella del “veccillo”, un tortano di pasta brioche (unici due giorni dell’anno per assaggiare il loro impasto unico, non contemplato abitualmente, poiché considerato dall’indimenticato Mario prodotto di forneria), profumatissimo, naturalmente con inserti di uova e granella di zucchero, da bissare il Sabato Santo. E’ questo il dolce per provare il forno prima di porre in cottura le celeberrime pastiere, che scioglieranno le campane della Risurrezione, unitamente alla speranza e speriamo, all’incalzante Primavera.