Sacrè: una bruciante modernità - Le Cronache
Spettacolo e Cultura Danza

Sacrè: una bruciante modernità

Sacrè: una bruciante modernità

Sergei Polunin sulle tracce di Vaslav Nijnsky, stasera alle ore 21, 30 sul palcoscenico del Ravello Festival per la Sacre du Printemps di Igor Stravinskij

Di OLGA CHIEFFI

Una bruciante modernità che evoca i fantasmi del primordiale questa è il “Sacre du Printemps” di Igor Stravinskij. Una partitura complessa di una violenza inaudita, ci attende questa sera sul Belvedere di Villa Rufolo, per la quale Stravinskij riandò alle origini pagane della Russia antica e le rivestì di una musica giudicata, allora, nel 1913, addirittura barbara. Il Ravello Festival attende questa partitura e il suo interprete , il ballerino Sergei Polunin, oggi alle 21.30, nell’ambito del programma culturale delle Universiadi di Napoli nell’ambito dello spettacolo Sacrè che comprende due coreografie. Il progetto artistico che Polunin interpreta insieme a un gruppo di danzatori con in testa il già Principal del Royal Ballet Johan Kobborg, fa rivivere l’atmosfera dei Ballets Russes di Diaghilev attraverso la figura leggendaria di Nijinsky, come il titolo Sacré suggerisce. Diviso in due parti, lo spettacolo prevede un primo atto, Fraudoulent Smile, con nove danzatori in scena tra cui Polunin firmato da Ross Freddie Ray su musiche del trio polacco klezmer Kroke. E’ qui che ci tornerà alla mente una pagina di Heschel, in cui afferma che la musica non è un prodotto dell’uomo, non è creazione nel senso consueto del termine, ma che essa sta nell’uomo, è la sua stessa vita, è il ritmo interiore ed esteriore che regola il suo comportamento, è la legge liberamente assunta che modula dall’interno ogni sua ora, è il tempo che prende forma e che non viene lasciato, così, fluire senza argini, come acqua su pietra. La danza rappresenta l’estremo tentativo umano di catturare l’uniformità del tempo nel suo scorrere ineluttabile e disperante, di piegarlo alla sua volontà creatrice, costringendolo in ritmi che esprimano le scansioni interiori della vita. Il secondo atto interamente danzato da Polunin sarà invece interamente dedicato al Sacre stravinskijano. La coreografia di questo assolo si deve alla danzatrice giapponese Yuka Oishi cresciuta all’Hamburg Ballet di John Neumeier, già collaboratrice di Natalia Osipova per i progetti contemporanei da lei intrapresi a Londra prodotti dal Sadler’s Wells, per un evento che è una coproduzione della Fondazione Ravello e Fondazione Campania dei Festival in collaborazione con ATER – Associazione Teatrale Emilia Romagna, sempre attenta con Bigonzetti alle grandi produzioni contemporanee che guardano al luminoso passato della grande danza. Un balletto profetico il Sacre, perché fece piazza pulita di ogni illusione e, sia pure per metafora, riportò le coscienze alla loro verità, niente affatto buonista e consolatoria. NiLa postura, anziché essere aperta e ruotata en dehors come si richiede nel balletto, è tutta chiusa in se stessa, in en dedans. Questa postura chiusa, rattrappita, conferisce pesantezza ai danzatori, i cui movimenti risultano goffi e animaleschi, al contrario del linguaggio estetico dell’eleganza della verticalità, della leggerezza. Anche Nijnsky al tempo sconvolse la tecnica coreutica, inventando una postura costrittiva, che privava il movimento della grazia e dell’ampiezza per forzare a movimenti ruvidi e brutali. La gestualità brusca, con le mani serrate a pugno, il corpo spesso scosso da tremolii, i salti senza plié. Spesso la parte inferiore del corpo teneva un ritmo differente rispetto alla parte superiore. Ne nacque una coreografia troppo nuova e sconvolgente per il pubblico di allora, che non riusciva a sopportare né i suoni né i movimenti dei ballerini. Polunin omaggerà proprio Nijnsky e il suo aspetto psicologico, attraverso una forte componente interpretativa, che lega il secondo atto alla prima parte dello spettacolo. Il fil rouge – letteralmente, in quanto compare durante la coreografia una corda rossa che arriva ad imbrigliare e a sopraffare completamente il danzatore nel finale – lega infatti le due proposte coreografiche all’insegna della recitazione e del simbolo: la corda sembra innalzarsi a sintomo dell’incomprensione e dell’opprimente giudizio da parte della società, fino a portare all’emarginazione e alla solitudine del singolo additato come diverso evocato dalla squassante musica stravinskiana.