Di Alfonso Mauro
“E ti racconterò […] / degli errori / che ciascuno commette / quando si è troppo giovani / per accettarsi”. Affidare i pronunciamenti o le istanze centrifughe della propria interiorità, una propria (auto)rappresentazione, quando non, più auspicabilmente, una più consapevole coscienza di sé, o l’artefacendo distillato del vivere alla pubblicazione in versi è diventato fenomeno, strumento rito-di-passaggio diffuso d’espressione e confessione malinconica, gioiosa o problematizzante cui le coordinate storiche attuali conferiscono considerevole caratterizzazione ed enucleazione di contenuti e temi — in una immutabili e diacronici. In ciò sia grato, si parva licet, contraddire l’adagio carducciano che ex summa cathedra dà due mani di belletto di “cretini” a quanti non smettano l’Alto Stilo dopo i diciott’anni senza poeti veri farsi. D’altro canto, quantunque non sia questo il luogo per le prognosi dell’editoria grande e piccola, se la piccola o l’indipendente (sovente coincidenti) sanno favorire chi davvero abbia qualcosa da condividere — è ad esse che dobbiamo la stampa di lavori piuttosto ben torniti come nel caso in questione, e per cui l’attività creatrice assuma la gratificante risorsa della catarsi. Parlare per gli altri parlando di sé. Tale è uno dei non infelici segnacoli del labor limae adoprato dal salernitano Renato Criscuoli (classe 1996, triennale e magistrale in Filosofia) nella sua raccolta di versi “Il resto delle briciole” uscita per i tipi di Protos Edizioni, giovane casa editrice a conduzione femminile e indipendente, con innanzi (ci sia concesso eccepire anche dell’oggetto-libro, e della sua impaginazione) la rosea e lieta prospettiva del miglioramento.
Al suo primo “contributo letterario”, Criscuoli lavora immediatamente per sottrazione della parola, affidando un non esibizionistico mettre à nu del vissuto a una quasi dialogica (quando non narrativamente sic et simpliciter) sobrietà espressiva che pesi maggiormente il significato, che non il significante, sulla bilancia del dettato poetico — a tutto beneficio di una certa Poetica che sa intenzionalmente circoscritta trasparire tra le non fitte pagine, e diversamente da altri lavori che invece meramente accumulino pensieri extra-vaganti alla ‘caro diario’. Il filo rosso si srotola in rettilineo. Il frammentismo del “destarsi mosaico (o almeno, così pare)” è sì, comunque, cifra identitaria della materia qui (ri)creata, ma i minuzzoli di cui al bel titolo sono intesi a residuale, distillato epifenomeno del reale e dei suoi travagli e delle sue aspettative e delle sue permutazioni: l’amore/gli amori, e la comunicabilità del sé nella dicotomia di quelli (e generale) tra legame e individualità di “anime irrisolvibili”; la famiglia, espansa tra quotidianità e sacralità — rimarchevole l’apparizione-agnizione paterna verso l’ “eroe allitterato”; la connaturata, se non frustrata, ricerca di senso in età ed Età difficili, con le pulsioni decodificate romanticamente, vitalisticamente, altrove magari iconoclasticamente (come nell’auspicata leibniziana “migliore delle morti possibili” per la Filosofia) o in forma di denuncia dell’umana violenza (come nel testo che squarcia sofferto panorama di guerra); il non unicamente autobiografico gesto del pensare, del porsi in analitica rievocazione con altrettante situazioni assurte all’Emblematico, pur se con l’apparenza del prosastico, nella ricerca d’identità (“Io, in mille pezzi. / E mille pezzi ancora”; “Io sono il mio nemico, / che abita un non-luogo”) i cui processi cognitivi sono comunque influenzati dall’Incertezza. La tensione è duplice: tra la posa malinconica che ridipinge res gestae e historia rerum gestarum quali, appunto, briciole magari lasciate cadere onde ritrovare la via (in questo senso sarebbe delizioso il riferimento fiabesco) e ciò che di esse resta, non beccato dagli uccelli della dimenticanza o ancora non lasciato per via poiché di là da venire nell’urgenza di vivere, è sintetico guizzo il costrutto poetico avanzante per discese tangibilissime e ispirate epifanie (buona la padronanza dei disseminati metasememi) coglienti alterità d’atteggiamento lirico piacevolmente e vagamente vicino a qualche cantautorato musicale — la musica essente co-passione e carriera del giovane autore che altrove ha dichiarato di aver immaginato i testi in colonna sonora. Dettato e parlato coincidono. Lo scritto ha tono dimesso, e, finanche negli assenti titoli, elimina fronzoli lessicali e retorici, richiedendo e in alcuni casi ottenendo una buona sintesi di pensiero e d’immagine che cristallizzi i particolari nell’attimo presente.
Plasmare l’impermanenza (“non si ama in una vita / come s’ama in un momento”; “Odio il movimento, / ciò che cambia e ciò che resta / alla modifica […] di questo tempo / che fugge più veloce del Pirata”) nel lampo che la fissa corale pluriloquio, da monologo sull’esperito che si era mossa, è la tékhne del verseggiatore-pensatore che qui scientemente molti degli strumenti dell’apollinea ‘cassetta degli attrezzi’ smette — e, con essi, alcune strutture mentali del consueto — così da restituire una realtà poietica così aderente a quella quotidiana da trasfigurarla proprio in questa tensione all’identità, e con frammenti che scavano con la perizia della goccia un senso sempre recuperabile attraverso un tempo occhieggiante bergsonianamente. Questa sorta di miniaturismo enunciativo rifugge atteggiamenti retorici e consegna una levitas tutta intimistica e con la raccoltezza della semplicità — da intendersi, ci si passi la similitudine, come quella della sonata n°16 di Mozart (“esplorandoti come un pianoforte”) — che pure indica una direzione: risalendovi, “misurare l’abisso e cucirgli le margherite sui margini”, anche a discapito d’un tempo degli “anni color smeraldo”, ovviamente non infinito, e d’una verità non consegnanda ai versi che con la v minuscola, e di un “maestoso atto unico” dove la libertà è “terribile, meravigliosamente crudele”. Se davvero “essere egoisti / non si addice ai poeti”, scrivere, per tema d’afonia, di propri silenzi e paure barattando “il dolore col piacere” è reciprocità corale, e in qualche suo piccolo modo salvifica; è sincero anelito di “imparare / come si vive, come ci si addormenta”; è capacità d’accettazione della frammentazione e dell’incertezza del reale come dato non eliminabile, da trasformare in risorsa grazie ad un costante esercizio di consapevolezza e riflessione, continuando a “parlarci, / seppur si muoia”. “Forse questo amiamo chiamarlo eternità, / l’abilità di marchiarci il cuore / vivendo in un battito che / neanche ci appartiene”.
Plasmare l’impermanenza (“non si ama in una vita / come s’ama in un momento”; “Odio il movimento, / ciò che cambia e ciò che resta / alla modifica […] di questo tempo / che fugge più veloce del Pirata”) nel lampo che la fissa corale pluriloquio, da monologo sull’esperito che si era mossa, è la tékhne del verseggiatore-pensatore che qui scientemente molti degli strumenti dell’apollinea ‘cassetta degli attrezzi’ smette — e, con essi, alcune strutture mentali del consueto — così da restituire una realtà poietica così aderente a quella quotidiana da trasfigurarla proprio in questa tensione all’identità, e con frammenti che scavano con la perizia della goccia un senso sempre recuperabile attraverso un tempo occhieggiante bergsonianamente. Questa sorta di miniaturismo enunciativo rifugge atteggiamenti retorici e consegna una levitas tutta intimistica e con la raccoltezza della semplicità — da intendersi, ci si passi la similitudine, come quella della sonata n°16 di Mozart (“esplorandoti come un pianoforte”) — che pure indica una direzione: risalendovi, “misurare l’abisso e cucirgli le margherite sui margini”, anche a discapito d’un tempo degli “anni color smeraldo”, ovviamente non infinito, e d’una verità non consegnanda ai versi che con la v minuscola, e di un “maestoso atto unico” dove la libertà è “terribile, meravigliosamente crudele”. Se davvero “essere egoisti / non si addice ai poeti”, scrivere, per tema d’afonia, di propri silenzi e paure barattando “il dolore col piacere” è reciprocità corale, e in qualche suo piccolo modo salvifica; è sincero anelito di “imparare / come si vive, come ci si addormenta”; è capacità d’accettazione della frammentazione e dell’incertezza del reale come dato non eliminabile, da trasformare in risorsa grazie ad un costante esercizio di consapevolezza e riflessione, continuando a “parlarci, / seppur si muoia”. “Forse questo amiamo chiamarlo eternità, / l’abilità di marchiarci il cuore / vivendo in un battito che / neanche ci appartiene”.