Ravello apre il 2026 con un colpo di piatti - Le Cronache Spettacolo e Cultura
Spettacolo e Cultura Musica

Ravello apre il 2026 con un colpo di piatti

Ravello apre il 2026  con un colpo di piatti

Olga Chieffi

Un deciso colpo di piatti inaugurerà il nuovo anno in musica della Fondazione Ravello, col suo presidente Alessio Vlad, il direttore artistico Lucio Gregoretti e il direttore generale Maurizio Pietrantonio, sul parquet dell’ auditorium, Oscar Niemeyer, domani sera alle ore 18, quello dell’ouverture della Carmen di Georges Bizet. L’Orchestra Filarmonica di Benevento, diretta da Jordi Bernàcer che ospiterà il soprano Maria Kokareva e il baritono Amartuvshin Enkhbat, applaudito Nabucco al Verdi di Salerno, farà rivivere il prodigio “Carmen” che inizia con quel colpo di piatti, con cui Bizet per mezzo di un balzo folgorante e vertiginoso riesce a portarsi nel cuore delle cose, delle persone, delle situazioni, scrutandole fin nel profondo, forte di una percezione acuta fino allo spasimo, partecipe fino alla sofferenza. Ognuno può essere lo spettatore ed ognuno può diventare il fulcro della storia nel momento in cui il destino lo decide. Toccherà quindi all’Oscar della Lirica 2025, Amartuvshin Enkhbat dar vita al torero Escamillo , simbolo della forza fisica, della sfida infinita con la morte, del Super Uomo. con la sua aria più attesa “Vôtre toast, je peux vous le rendre…”. Si continua con la Spagna ottocentesca con Léo Delibes che ricordiamo per la grande musica da balletto e opere per il teatro. Ma scrisse anche alcune canzoni, in stile spagnolo, tra cui ‘Les filles de Cadix’ è la più conosciuta, non lontano dalla scrittura di Bizet, pagina di sortita del soprano Maria Kokareva. Riflettori su Umberto Giordano e sull’intermezzo dalla Fedora collocato a metà dell’atto II e basato su un solo tema, quello dell’aria «Amor ti vieta» appena cantata dal tenore. È un’autentica romanza senza parole, nella quale la melodia cantata ritorna in una sontuosa veste sinfonica, arricchita da un controcanto dei violoncelli e dai riflessi d’oro dell’arpa. Enkhbat darà voce al Carlo Gérard, nella sua caratteristica enfasi, dello Chenier con “Nemico della patria”. Gèrard è mosso dalla gelosia, non dall’ideale politico, deve restare un servo, il baritono dovrà trasmettere quell’idea della sentina, del tramare nell’ombra, quel fabbricare, pur provando ribrezzo di se stesso, le accuse ad un innocente per trasformarlo in traditore, straniero, “poeta”, nemico della patria. Il soprano, invece si cimenterà con Giacomo Puccini e l’aria di Lauretta dal Gianni Schicchi, nella smancerosa oasi di commozione di “O mio babbino caro”, parodia gaglioffa del lamento. Ed ecco il Prologo “ Si può, si può” da Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, che introduce il tema centrale dell’opera: la fusione tra realtà e finzione teatrale, anticipando che gli attori sono persone vere con sentimenti reali e che la commedia che vedremo nasconde un dramma autentico, basato su un fatto di cronaca, rompendo così le convenzioni del teatro tradizionale. Cantato da Tonio (il buffone) davanti al sipario chiuso, avverte il pubblico di non illudersi, perché anche i pagliacci provano amore, gelosia e dolore, e la loro vita privata può esplodere tragicamente, trasformando lo spettacolo in una realtà crudele. Maria Kokareva si trasformerà, quindi nella Violetta del primo atto “E’ strano! E’ strano!, col suo dipanare le fulgide agilità di “Sempre libera degg’io”, trionfo della Violetta belcantista, ma anche della sua eclissi, con quel duplice stupendo profilo di spensieratezza e sofferenza. “La musica di Verdi è nel sentire di tutti noi. Pensi al melodramma italiano e ti balena in testa colui del quale il grande critico musicale Bruno Barilli scriveva “Verdi ignora le parafrasi, s’intromette furiosamente, taglia i nodi con la roncola, e fa scorrere lacrime e sangue esilaranti, piomba sul pubblico, lo mette tutto in un sacco, se lo carica sulle spalle e lo porta a gran passi entro i rossi, vulcanici domini della sua arte”, finale con il Rigoletto di “Cortigiani vil razza dannata”: proprio dalla sentita necessità di potenziare la caratterizzazione del personaggio principale, indagandone gli opposti lati di una personalità contrastata e, proprio in questo, così umana, muove il rinnovamento operato dalla drammaturgia verdiana intorno a convenzioni radicate: questa pagina è l’esempio memorabile che sancisce la nascita di una nuova voce per il melodramma italiano, quella “spinta” del baritono, a Ravello quella potente del mongolo Amartvshin Enkhbat, che sarà chiamato per antonomasia verdiano, dal potente declamato, per il quale non regge più la tradizionale definizione di “basso cantante”. Entra poi in scena la figlia di Rigoletto, Gilda: come vittima di un reietto, dovrà ambire ad una gioia improvvisa e superiore, che la distacchi totalmente dal suo destino familiare, o dovrà seguire l’altra sua via, altrettanto predestinata e logica, quella di vittima sacrificale. Per un po’ il suo futuro oscilla sulla punta di una miracolosa incertezza, espressi dai vocalizzi e gli acuti limpidi e malleabili di “Caro nome”, stucchevole aria cesellata come un merletto dalle colorature, ma di assoluta necessità drammatica: quella bimba ingenua sino al limite del credibile, dopo aver conosciuto l’amore in modo di- verso da come l’immaginava, diviene traumaticamente, prima nella confessione dell’oltraggio subito(il rapimento e la rottura dell’illusione nell’incontro col Duca a palazzo, una donna matura e consapevole, assoluta dominatrice della scena, prima di lanciarsi nel virtuosistico “ Si, vendetta, tremenda vendetta”, con il padre Rigoletto, in questa concentrazione di atteggiamenti, in un arco che ripiega su se stesso, dal più agitato ed imperioso all’implorazione, sino al lirismo, un po’ sentito e un po’ di facciata, comunque musicalmente autentico ad ingigantire l’empito del personaggio che, nel finale secondo, decide di vendicarsi.