di Martina Masullo
Prima di don Milani, c’era Lorenzo.
Se è vero che ogni evento, ogni cosa del mondo, ogni persona si cristallizza nell’immaginario collettivo attraverso una serie di immagini, il nostro viaggio nella vita di Lorenzo Milani non può che partire così, dalle immagini dirompenti e iconiche che possiamo raccogliere di lui a partire dai libri, dai documentari, dalle interviste, dai film.
Proviamo a immaginare: la prima immagine è la seguente…
È il 1930, Lorenzo ha circa sette anni, si è trasferito da poco a Milano e dalla finestra della sua camera prova a lanciare lo sguardo oltre i campi da tennis e i giardini della villa di famiglia alla ricerca di qualcosa. Che cosa? È l’origine di una malinconia profonda, pervasiva, destabilizzante da cui prova a liberarsi, ma che siede sempre al suo fianco, nonostante provi a convincersi che non ce ne sia motivo. Un sentire che gli si incolla addosso durante i gesti quotidiani, la scuola, il gioco. Nelle mattine di sole, nei pomeriggi di pioggia, nel silenzio della sua stanza, nel vociare dei suoi amici, nel rincorrersi forsennato dei suoi pensieri.
La malinconia
gli cresce dentro
Lorenzo non cerca Dio. E come potrebbe farlo? La sua è una famiglia laica, non praticante, ricca sì, ma poco credente. Secondo di tre fratelli, Adriano ed Elena, Lorenzo nasce a Firenze il 27 maggio 1923. È figlio di Albano Milani, laureato in chimica e bruciante di molte passioni, e Alice Weiss, appartenente ad una ricca famiglia ebrea di Trieste. Non ribolle in famiglia la sua fede, non si trova tra gli ambienti ch’egli frequenta, non gli si pone davanti come una strada da percorrere naturalmente, ma ha tanto (o tutto) a che fare con quella malinconia che negli anni dell’adolescenza continua a crescergli dentro, si evolve, muta la sua forma e si carica di una potenza che deve, necessariamente, trovare il modo di esplodere.
Ed è dapprima nella tensione artistica che Lorenzo cerca di incanalare questo sentimento. Dopo la scuola, rompe la tradizione di famiglia e decide di non iscriversi all’università. Vuole diventare pittore. La sua famiglia non condivide la sua scelta, ma la appoggia.
È il 1941 quando Lorenzo inizia a frequentare lo studio del pittore tedesco Hans-Joachim Staude a Firenze ed è proprio quest’ultimo a notare in quel ragazzo dallo sguardo malinconico una «veemenza» nell’apprendere che riesce, in qualche modo, a sopperire al suo mancato talento nelle arti. A settembre si iscrive all’Accademia di Brera. È in questi anni che Lorenzo impara una lezione importante relativa all’arte, ma che si rivelerà ancor più preziosa di quanto crede nella vita: «in un soggetto cercare sempre l’essenziale, vedere sempre i dettagli come parte di un tutto». Un tutto che Lorenzo non riesce ancora a vedere, non ne intercetta i confini, non ne interpreta le forme, ma che si sta lentamente configurando davanti ai suoi occhi.
La seconda immagine è quella di Lorenzo diciottenne col naso all’insù in una cappella nella tenuta di famiglia a Montespertoli: progetta di affrescarla e la esplora per pianificare il lavoro. I suoi passi risuonano nel vuoto della chiesetta, il silenzio è assordante, attraversa la navata, risale i gradini fino all’altare, sul leggio un libro aperto a metà. Lorenzo lo sfoglia, procede nella lettura come un affamato divora il pasto, è avido di quelle parole, curioso di ciò che hanno da rivelargli, sorpreso dalla loro bellezza. Qualche giorno dopo scriverà in una lettera all’amico Oreste Del Buono: «Ho letto la Messa. Sai che è più interessante dei Sei personaggi in cerca d’autore?»
Le origini
della fede
Non si sa molto della genesi della sua fede, che cosa l’abbia innescata, se sia stata una folgorazione o una lenta e graduale presa di coscienza. Eppure, ci piace pensare che in quella esplorazione solitaria alla cappella di Montespertoli risieda il segreto di quel suo rapporto profondo con Dio, ma talvolta conflittuale con la religione cattolica e la chiesa e in quella sua disobbedienza inarginabile e lucidissima che ne caratterizzerà le azioni.
«Trasparente e duro come il diamante, doveva subito ferirsi e ferire». In una frase così breve, tutta la sua essenza. È, forse, questa la più aderente, ermetica e onesta definizione mai elaborata di Lorenzo Milani che viene proprio dall’unico custode del segreto della sua fede: don Raffaele Bensi, suo padre spirituale dalla conversione fino alla morte. Don Bensi, più degli altri, più di tutti, riesce a rendere immagine lo spirito di Lorenzo. È ancora lui che definisce «indigestione di Cristo» lo studio immersivo e disperato di Lorenzo a partire dal 1943, quando al funerale di un giovane sacerdote giura a se stesso che avrebbe preso il suo posto. Si pone domande e cerca risposte, deve recuperare le conoscenze mancanti, vuole comprendere e interpretare, analizzare e venire a capo di alcune questioni che gli sono poco chiare. Lo stesso anno entra in seminario. Ancora una volta la sua famiglia lo appoggia, ma non comprende appieno da dove provenga quella decisione così radicale. Sua madre, Alice Weiss, in una splendida intervista del 1970 a “Il resto del Carlino”, avrebbe chiarito il motivo di quella cieca fiducia accordata a suo figlio per tutta la vita: «Sapevo che era capace solo di scelte definitive, totali».
In seminario, Lorenzo è felice come non lo era mai stato. Quella malinconia dalla forma evanescente che non riusciva a comprendere da bambino e poi da ragazzo, gli si concretizza tra le mani: gli sembra per la prima volta di averla in pugno e di poterla trasformare in qualcosa di più, in qualcosa di meglio.
Così Lorenzo
diventa prete
Poco dopo arrivano i primi scontri. Lorenzo fa domande complicate, scomode, obbedisce certo, ma non rinuncia mai al proprio senso critico e non si accontenta di risposte che non vadano oltre la superficie. Non può scendere a compromessi: è rigoroso nella conversione, così come lo era stato nella laicità.
Duro, ironico, spietato, ma anche tenero, affettuoso, devoto. In lui «amore» e «durezza» erano due concetti legati e inscindibili. Fu lui a scrivere che «pochi danno amore con la durezza del Signore». Risiede in queste parole – paterne, sincere, difficili – il senso del suo essere prete.
Il 13 luglio 1947 Lorenzo Milani diventa don Milani e celebra la prima Messa a San Michelino. Trascorre alcuni mesi a Montespertoli, come cappellano di don Bonanni. Ma la sua prima destinazione da sacerdote è San Donato a Calenzano, un piccolo comune operaio in provincia di Firenze, come cappellano dell’anziano don Pugi.
Sono gli anni delle grandi lacerazioni politiche, della scomunica ai comunisti e del fervore attorno alle rivolte e alle elezioni del 1948. Don Milani cerca di mantenersi in equilibrio tra le correnti politiche e sociali che attraversano e squarciano il paese, ma è in questo periodo che comincia davvero a rendersi conto di quanto la condizione in cui ha vissuto fino a quel momento sia così poco aderente alla miseria economica e intellettuale del popolo che gli è stata affidato. Inizia a maturare la sua, personalissima, coscienza sociale ed attraverso quella interpreterà le vicende della propria comunità e del proprio paese. È a San Donato a Calenzano che nasce la sua prima scuola popolare: laica, inclusiva, aperta a tutti.
La costruzione
delle coscienze
Don Milani pensa la sua scuola come il luogo in cui costruire coscienze critiche, scudi culturali per proteggersi contro le ingiustizie, lo sfruttamento e la vuotezza della ritualità imposta e subita, senza comprenderne il senso. Quando si parla dei metodi educativi di don Milani, c’è un’espressione a cui si fa spesso riferimento: non lascia indietro nessuno. E questo, talvolta, viene interpretato come un modo di procedere, lentamente, rispettando i tempi di tutti. Eppure, c’è molto di più. La scuola di don Milani raccoglie, uno ad uno, i suoi studenti, li attira a sé mentre stanno pascolando le pecore e dopo aver finito il turno in fabbrica, gli rende visibile il senso di ciò che si fa lì dentro: è un dono dal valore spropositato, dare la possibilità a chiunque – chiunque! – di prendere in mano la propria esistenza e scegliere secondo la propria testa.
C’è un’immagine – l’ennesima di questo nostro viaggio, descritta da sua madre che ha saputo tenere il filo teso ad ogni suo passo per permettergli di arrivare dove doveva arrivare – in cui don Milani è raffigurato così: «Coi piedi lui era pronto a prendere a calci tutte le ingiustizie che si opponevano alla sua missione di prete, ma con le mani, soltanto l’ostia tenera (e avvertiva: “Non l’ho deposta per correre sulle barricate”)». Queste parole concludono le sue Esperienze Pastorali.
«Così abbiamo capito cos’è l’arte. È voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi». In don Milani la tensione artistica non si esaurisce, anzi si rigenera in nuove forme e nuovi linguaggi. Tra il dicembre 1951 e il febbraio 1952, don Milani scrive due lettere al regista francese Maurice Cloche. Dopo aver visto la sua opera Monsieur Vincent del 1947 don Milani riconosce in lui un valido interlocutore per un suo progetto artistico: fare un film su Gesù. In un interessante articolo di Piero Loredan per La civiltà cattolica questa prospettiva viene esplorata a fondo e nell’incipit si legge:
«Non sto affatto pensando di proporle una ordinaria Vita di Gesù (ho sempre proibito ai miei ragazzi di andare a vederle!). Al contrario, le propongo di scrivere un film dove si apprende e si imprime questa Vita senza mai vedere Lui, il Protagonista».
Uno sguardo aperto
che richiama l’arte
Ha un’idea di Dio don Milani che è quella salvifica e necessaria a cui, alla fine, giungono (quasi) tutti quelli che si avvicinano a Dio come atto risolutivo dell’esistenza. Scevro da fisicità invadenti e immagini dai confini netti e riconoscibili, Dio è per don Milani una vita che esiste senza palesarsi mai all’occhio umano, scivola leggera tra le cose del mondo, le direziona, le imprime della propria essenza ma non si lascia afferrare. Dio è in tutte le cose. E lo sguardo ampio, arioso, attento di don Milani non può non interpretare l’arte come espressione massimamente liberatoria di una potenza, quella di Dio, che dall’anima necessita di esplodere ovunque.
È il 1956, Barbiana. L’immagine è quella di don Milani che arriva in questa piccola chiesetta di montagna, a cinquecento metri di altitudine, contornata solo da qualche cipresso e un minuscolo cimitero.
Barbiana sembra essere, letteralmente, la fine del mondo. Il luogo in cui la terra incontra il cielo, svanendo in un vuoto cosmico, dimenticato da tutti. Ma se è la fine del mondo, è proprio lì che don Milani vorrà finire la sua vita. Prima di ogni cosa, acquista una tomba al cimitero di Barbiana e lì verrà seppellito. I suoi obiettivi sono chiari, più chiari di sempre: Barbiana come esperimento educativo, come sfida culturale.
In quel paesino formato da poche decine di anime, perlopiù sparse tra le case lontane, la scuola di Barbiana inizia con l’attività di doposcuola nella casa del priore, o nelle giornate di sole, sotto il pergolato. Successivamente, diventa punto di riferimento per l’avviamento professionale e nel 1963 si tiene il corso di recupero per la media unificata. In questi anni don Lorenzo può contare sull’aiuto di Adele Corradi, una professoressa che si fa trasferire in una scuola pubblica poco distante da Barbiana per fornire al parroco un aiuto concreto e continuativo.
La lingua chiave
per capire il mondo
Barbiana è un laboratorio didattico a cielo aperto, è il luogo in cui l’apprendimento non è più unilaterale, ma si pone in un flusso costante valori appresi e restituiti, è il posto dove la cultura fa più rumore. Don Milani è convinto che l’apprendimento sia uno stile di vita e che si possa apprendere da tutti e facendo ogni cosa, per questo appena gli riesce, chiama chiunque passi per Barbiana ad insegnare qualcosa ai suoi ragazzi. Interpreta le lingue come chiave per capire il mondo e il Vangelo come chiave per conoscere se stessi. Invita i suoi ragazzi a scrollarsi di dosso quella timidezza tipica di chi non sa di poter fare domande.
È in questi anni che prendono vita alcune delle sue opere più importanti, più difficili, più controverse. Don Milani scrive ciò che vive quotidianamente sulla propria pelle. Le parole di don Milani sono pure, oneste, semplici e prive di fronzoli, potenti: arrivano dritte al punto e non lasciano sbavature né nella forma né nel contenuto.
È del 1958 Esperienze Pastorali, una riflessione sociologica e statistica sulle condizioni delle comunità con cui aveva avuto a che fare negli anni e sul ruolo del parroco in contesti di povertà materiale e intellettuale. Se in un primo momento l’opera ottenne l’imprimatur, dopo pochi mesi il libro viene ritirato e, negli anni, contestato, proibito e censurato.
Severo e aspro, don Milani punta il dito contro chi non ha avuto mai a cuore gli ultimi, i diseredati, i dimenticati. Coloro ai quali egli aveva aperto, prima che agli altri, le porte della sua scuola.
Nel 1965 risuona forte e chiaro il suo imperativo: L’obbedienza non è più una virtù. È il titolo della sua lettera ai cappellani militari che difendevano l’obbedienza militare a tutti i costi e tacciano di viltà gli obiettori di coscienza.
L’obiezione di coscienza di don Milani è uno degli aspetti più controversi della sua vita, espressione di una incomunicabilità tra le sue idee e la chiesa che hanno provocato enorme sofferenza in lui e che ancora oggi sono oggetto di discussione.
La dura, vera legge
della consapevolezza
Don Milani è duro – non saprebbe essere altrimenti – coerente con la sua personalità in ogni contesto della sua vita. Ed è arrabbiato. Segue le leggi della propria coscienza e non comprende come ci si possa allontanare così tanto da essa.
Quasi in una corsa contro il tempo, nel 1967 (che è anche l’anno della sua morte) conclude e pubblica la sua Lettera a una professoressa, la sua presa di coscienza finale su un sistema educativo che non regge il confronto con la realtà variegata e stratificata del paese. Si tratta di una disamina – provocatoria e, ancora una volta, spietata – sulla scuola pubblica dell’obbligo pubblica. La scrive insieme ai suoi studenti nell’esercizio della scrittura collettiva e, nel tempo, diviene icona della contestazione studentesca.
In un passaggio si legge:
C’è silenzio, una bella luce, un banco tutto per me. E lì, ritta a due passi da me, c’è lei. Sa le cose. È pagata per aiutarmi. E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro
Quella degli allievi
è la sua intima voce
Parla con la voce dei suoi studenti, don Milani. È la sua priorità assoluta: dar voce a chi voce non ha. Tra i suoi ragazzi, Michele e Francuccio Gesualdi più di tutti gli altri gli crescono accanto come fossero suoi figli per poi prendere il volo.
Don Lorenzo Milani muore a 44 anni e la sua Lettera a una professoressa, diviene il simbolo dell’eredità che egli lascia non solo alla scuola e al mondo dell’educazione, in una spinta rivoluzionaria che dura ancora oggi e, anzi, si rigenera col tempo, ma anche e soprattutto allo sguardo individuale di ognuno di noi con l’augurio di raccogliere un mondo visto attraverso il suo sguardo.
Duro e amorevole, coerentemente con come lo si è descritto fino ad ora, ai suoi ragazzi lascia un testamento che si conclude così: «Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio. Ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un abbraccio, vostro Lorenzo».