Quante volte “germoglia” Bohème? - Le Cronache Spettacolo e Cultura

Di Olga Chieffi

 

La Bohème ha inaugurato venerdì sera la stagione operistica, del teatro Verdi di Salerno, con due repliche sold out ed una generale dedicata alle scuole, con il massimo zeppo in ogni ordine di posto ed un Daniel Oren che ha imposto una sua affatto semplice rilettura di Bohème. Il preludio si era avvertito già in conferenza e nella prova musicale successiva, con il Maestrissimo, che con tra le mani una partitura straziata e “pathita”, ha scelto di ispirarsi al suo debutto in quest’opera, sempre temuta e che, certamente, teme ancora oggi, ovvero quella dell’Opera di Roma di Crisci, con Mirella Freni, Roberto Alagna, regia di Franco Zeffirelli e un Angelo Nardinocchi che nel 1991 fu un sergente dei Doganieri e qui, a Salerno, lo abbiamo ritrovato nel “parlato” del doppio ruolo di Benoit e Alcindoro. Mariangela Sicilia ha bei numeri, ma le richieste di Daniel Oren, il quale non ha tradito certe ragioni estetiche, sono adatte solo alle divine. Una su tutte la prima evocazione di morte quello sgelo, sognato e sperato, che non viene, nel “guardo sui tetti e in cielo”, che il maestro ha giustamente richiesto in pianissimo legato, in rallentando, senza prender fiato a “ma quando vien lo sgelo”, senza tener conto della pausa di un quarto con punto coronato. Preziosismi eseguiti sufficientemente dalla Sicilia e tra le ambasce, invece da Giovanni Sala, che è un tenore di grazia, di belle speranze, e accontenta critici quali il Cantù, che vede tale Rodolfo. Superato, però lo scoglio del I quadro in soffitta in cui, abbiamo ascoltato acuti e filati non tornitissimi dalla Sicilia e da Sala, uno su tutti il finale del primo atto, in cui Mimì ha preso il suo atteso do sopra i righi, mal seguito da Rodolfo. Quartetto dei bohèmienne dissestato, con un Mario Cassi, nei panni di Marcello, con sonorità non felicissime, a tratti un vibrato di trama grezza, che ha fatto purtroppo il doppio con un Carlo Striuli, ancora chiamato a interpretare Colline, in un’opera che deve essere fatta da giovani. La voce che si è elevata su tutti è stata quella del baritono salernitano Biagio Pizzuti che ha interpretato Schaunard timbro pieno disinvolta spigliatezza in scena, tenuta e varietà d’accento per l’intera opera, Musetta, una Sabina Puerértolas che non ci ha risparmiato acuti spigolosi e acuti urlati, fuorchè nel suo valzerino, cantato con grande credibilità scenica, da operetta.

Il secondo quadro ha salutato la solita confusione tra buca e palcoscenico, in particolare nell’entrata del coro al completo, ma sugli scudi poi le voci bianche, anche per recitazione, preparate da Silvana Noschese, contrappuntate dalle voci femminili, che hanno fatto la differenza rispetto alle maschili, agli ordini di Francesco Aliberti. Superato lo scoglio dei primi due quadri, Giovanni Sala ha fatto del Maestro Oren, la sua Mimì, dopo non poca emozione, ricambiato con conduzione e suggerimenti battuta per battuta e i duetti con la Sicilia sono finalmente “quadrati”, anche hanno peccato di scavo psicologico. A completare il cast Paolo Gloriante nel ruolo di Parpignol, Antonio Cappetta il Sergente dei doganieri, Alessandro Menduto un doganiere e Vincenzo Tremante un venditore ambulante. 

Funzionali le scene di Alfredo Troisi tra le quali si è innestato innestato perfettamente il perenne movimento in scena decisa da Plamen Kartaloff, con recitazione ben curata, la Banda di palcoscenico in costume in un secondo quadro che scenicamente è stato veramente il migliore, con il corno tra le mani di Schaunard, e nel primo, l’attenzione nel far “vedere” al pubblico che la pigione, mai verrà consegnata a Benoit, messo alla porta con grande arte. Ma il regista inaspettatamente ha inteso optare per il gran Coupe de teatre nel finale. Una soluzione presa durante la prova generale. La luna, raggio di luce bianchissima, ad illuminare il letto di Mimì spirata, sugli strazianti e straziati accordi finali, dopo la preghiera di Musetta che stringeva fra le braccia una Madonna di gesso da esterno, la vetrata che dà sui tetti di Parigi si illumina di rosso (che abbia pensato il regista al balletto di Boris Asaf’ev?), Mimì si alza dal suo letto, prende una bugia e si avvia per la scala da dove era entrata in casa di Rodolfo. Una sottolineatura inutile quella di far apparire lo spirito, la speranza nell’Oltre? Uno sgelo che non viene dove persino la nevicata dal terzo quadro pare possa in qualche modo stemperare. “La brevità, gran pregio” dice Rodolfo e ci piace concludere con le parole di Paolo Isotta: l’ “A tutta forza, fortissimo, quelle battute conclusive, non celebrano la fine di un eroe, sono il grido che la natura emette quando manca un piccolo essere qualsiasi  e al di qua dal bene e dal male, se questi esistessero. E per Puccini, uomo del Novecento, a differenza di Verdi, bene e male non esistono, il do minore del “sono andati” tutta basata su di una struggente, scaltrita, impeccabile tecnica di motivi di reminiscenza, incarna la giovinezza, che torna per l’ultima volta e irrimediabilmente finisce secondo un pathos silenzioso. Applausi e rose per tutti e in particolare per direttore e orchestra, condotta con incisiva narrazione, con cura dei colori e alle pagine cameristiche e alle invenzioni armoniche di Giacomo Puccini.