di Antonio Manzo
. L’inamidato linguaggio burocratico del pubblico ministero di udienza, Giampaolo Nuzzo, lo pronuncia con gli occhi bassi, seduto nel suo scanno. E’ solo l’inizio di un processo di Appello dove pare che già tutto sia stato deciso per la colpevolezza dell’ex responsabile del servizio contabilità analitica dell’Apsa (Amministrazione Patrimonio Sede Apostoli) del Vaticano di monsignore Nunzio Scarano e della commercialista Tiziana Cascone, ambedue condannati nel marzo 2022 per presunto riciclaggio (7 anni per Scarano; 3 anni e sei mesi per Cascone). Non è un processo qualsiasi quello della Corte di Appello ma dura pochissimo alla prima udienza, dopo la fulminea apertura e richiesta del pubblico ministero. dice il difensore del monsignore l’avvocato Riziero Angeletti che ha già presentato i motivi di appello alla sentenza di condanna del tribunale ed ora aspetta di illustrarli. Lui beneficia anche di un parer pro veritate a firma del professore Carlo Longobardo docente di diritto penale e all’università di Napoli sulla inesistenza del delitto di riciclaggio.
Se ne riparlerà il 12 marzo prossimo per la Corte di Appello presieduta dal presidente Patrizia Cappiello, giudici a latere Silvana Clemente e Marina Ianniciello. riciclaggio è la condanna in primo grado, una imputazione pesante in uno dei capitoli di Vatileaks ma nei quali spiccano anche le assoluzioni dei giudici romani e salernitani per ben due volte all’imputato Scarano per il delitto di usura ed evasione fiscale con la formula del “fatto non sussiste”. Quindi, assoluzione piena a Roma e Salerno nonostante il “fumo” inquisitorio della presunta presenza dei servizi segreti, una sorta di mania italiana per accreditare l’Italia dei misteri ed irrobustire la platealità accusatoria.
Ci sono molti modi, per uno storico, di accostarsi allo studio delle carte di un processo. Non per sostituirsi al giudice ma soprattutto, come nel processo Scarano proclamato a Salerno con l’enfasi inquisitoria di un cosiddetto maxiprocesso, poi finito in primo grado con la diffusa assoluzione di ben 54 imputati. Rimasero solitari, con la sentenza di condanna di primo grado del tribunale, Scarano e Cascone. Si possono assumere questi documenti processuali come oggetto essi stessi di ricerca, idonei a segnalare le culture dei giudici, i loro metodi d’indagine, gli stili inquisitori e simili. La procura di Salerno non solo arresta Scarano ma lo sottopone a dispendiose intercettazioni in una inchiesta che non riguardava né terrorismo e né criminalità organizzata. Potrebbe scattare anche per Salerno il controllo per le spese sostenute per le intercettazioni, davvero singolari, compiute dalla Guardia di Finanza con costose apparecchiature poste nel campanile del Duomo di Salerno dopo il permesso dell’allora arcivescovo Moretti, di “spiare” e registrare i movimenti casalinghi di monsignor Scarano nella sua abitazione di via Romualdo Guarna. Le intercettazioni vengono, probabilmente, diffuse dagli inquirenti o investigatori dell’epoca con elementi non penalmente rilevanti ed attengono a vicende personali per nulla indispensabili nella ricostruzione inquisitoria che, invece, coinvolgono i rapporti personali di Scarano con don Luigi Noli, quest’ultimo assolto con formula dopo il tritacarne giudiziario.
Nel processo c’è traccia delle dispendiose intercettazioni per assumere come fonti d’inchiesta e per la conoscenza dei fatti o delle situazioni medesime che formano oggetto di inchiesta dell’allora pm Guarino . Infine, si possono assumere come fonti e come oggetto d’indagine al tempo stesso ma, che incredibilmente, furono diffuse in maniera inquietante. È un rovesciamento dell’inchiesta penale con i metodi dell’indagine storica ma sulla base dello stesso materiale probatorio raccolto per giungere al dibattimento. Non è difficile prevedere che anche Salerno possa rientrare negli atti di monitoraggio, all’interno delle ispezioni ordinarie nelle 13 procure sul territorio nazionale (Avellino, Brescia, Cagliari, Catanzaro, Ferrara, Frosinone, Latina, Livorno, Rimini, Rovigo, Tempio Pausania, Torino e Vercelli). Le intercettazioni per il caso Scarano sono così invasive e sono diffuse all’epoca anche con la complicità di difese degli imputati, blande e ripiegate sui voleri dell’accusa inquisitoria .Ora il caso Scarano si attaglia proprio alle recenti verifiche ministeriali disposte. I monitoraggi riguardano il rispetto delle regole nelle indagini , attenendosi al principio di presunzione di non colpevolezza con garanzie costituzionali ampiamente violate, come nel caso Scarano.
Il primo grado sentenzia la fondatezza dell’accusa per il reato di riciclaggio compiuto da Scarano con i conti esteri dell’imprenditore D’Amico. Già nel 2014 il Tribunale di Salerno alla terza udienza dello stesso processo rigettò l’eccezione di incompetenza territoriale per reati compiuti a Roma. Al centro del processo l’accusa formulata della procura della Repubblica di opaca tracciabilità dei titoli, come ad esempio quello di 60.000 euro pagati per restaurare il sarcofago di Papa Gregorio VII finanziato con denaro del cavaliere Antonio D’Amico. Secondo l’accusa del pm il monsignore presso l’Aspa gestiva i fondi di beneficenza utilizzando la cassaforte vaticana per riciclare fondi di dubbia provenienza dall’estero, sostanzialmente immessi nuovamente nei conti correnti già aperti preso gli sportelli della banca vaticana.
Si tratta di un processo che riguarda i flussi di denaro e la presunta provenienza illecita. Non esiste e non è fondata l’accusa di riciclaggio, sostiene il professore Longobardo. Il giurista demolisce la sentenza di primo grado obiettando l’assenza di un reato presupposto relativamente alla configurabilità del delitto accessorio di riciclaggio.
Nella sostanza, la conclamata inesistenza di un delitto presupposto che avrebbe portato ad accumulare le somme di denaro illegalmente non potrebbe portare all’accusa di riciclaggio. Correlata al riciclaggio ed al flusso di denaro oggetto del processo vi sono le presunte dichiarazioni fiscali infedeli rese a seguito delle operazioni contestate. una recente sentenza della Corte di Cassazione del 10/05/2023 in riferimento al rapporto tra debito fiscale ed oneri probatori rispetto all’esistenza del debito stesso. La difesa fa leva sulle dichiarazioni fiscali esibite e non contestate del Gruppo D’Amico che ha adempiuto a tutti gli obblighi verso l’erario nel periodo contestato per inesistenza di debiti verso l’Agenzia delle Entrate con relative conseguenze sulla punibilità degli imputati.
Ora se ne riparlerà martedì 12 marzo dopo le ragioni della difesa onde evitare il sospetto di una sentenza già definita dopo aver tentato di zittire Angeletti e Longobardo.