Su varianti d’autore dantesche
Di Federico Sanguineti
Fino ad oggi, negli studi di filologia dantesca, sembra esser rimasto quasi del tutto in ombra un unico problema: quello delle varianti d’autore. Ma queste non possono non essersi insinuate nella tradizione di Inferno, Purgatorio e Paradiso: trattandosi, nel complesso, di un’opera che ha visto la luce a puntate, sarà pur stata oggetto nel corso del tempo (per non parlare dell’atto stesso della composizione) di qualche sia pur minimo ripensamento. C’è poi da aggiungere il fatto, forse veramente mai preso in seria considerazione, che la variantistica (cioè il confronto, l’esame e lo studio delle varianti) è uno dei fenomeni di cui proprio Dante, prima di ogni altro, si mostra consapevole. Filologo, per così dire, di sé stesso, già nella Vita nova non esita a esibire (almeno in nuce) una critica dei propri scartafacci. Nel raccogliere le rime in vita e in morte di Beatrice, egli chiarisce infatti che il sonetto Era venuta ne la mente mia ha due “cominciamenti”, ragion per cui il componimento viene allegato, per la prima quartina, in duplice versione. Nel Convivio (II XIV 6), riconosce inoltre la difficoltà di definire il pensiero di Aristotele su determinate questioni (per esempio a proposito della Galassia o Via Lattea), giacché la tradizione del testo (usufruito in “translazione”) offre difformità. L’essere “trasmutabile… per tutte guise” (Pd V 99) non esclude quindi, anzi implica, la trasmutabilità del testo, in particolar modo se quest’ultimo è scritto in volgare e non in latino. Per quanto concerne il Poema, il problema è stato affrontato finora episodicamente, quando nell’Ottocento Scarabelli azzarda che il manoscritto Cortonese 88 possa esser “pieno di Frammenti danteschi dall’autore rigettati”; o quando nel Novecento, in imbarazzo sulla lezione da promuovere a Pg XII 5, Petrocchi (su suggerimento di Contini?) afferma: “Siamo qui al limite ‒ ma purtroppo senza possibilità concreta di valicarlo ‒ d’una supposizione di variante d’autore, quasi che il poeta, dapprima innamorato della letteraria immagine delle ali, avesse poi facilitato la lettura sostituendo loro vela”. Le cose cambiano (per dirla ora in gergo tecnico) in caso di diffrazione o se si ha alternativa stemmatica fra i due rami principali della tradizione: certamente non si può parlare di varianti d’autore se uno dei due rami, poniamo α, presenta un errore correggibile con la lezione alternativa del ramo β (come a If I 4 dove, se α reca “E”, in β si ha la lezione “Ahi”; o, all’inverso, a Pg V 74 dove, se β reca “ch’in me fuor fatti sul”, in α si ha “onde uscì ’l sangue in sul”). Sarà invece il caso di parlare di varianti d’autore a If I 28: qui può risalire a Dante sia la lezione presente per diffrazione in una sezione di α (“Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso”), in quanto difficilior (“èi” per “ebbi” è solo nelle rime, ma non altrove nel Poema), mentre la lezione di β (“Poi ch’ebbi riposato il corpo lasso”) è conforme all’usus scribendi: “e l’occhio RIPOSATO intORno moSSi” (If IV 4). Saltando dal primo canto al verso conclusivo dell’ultimo, si potrà ipotizzare un’estrema variante d’autore, sicché la prima stesura di Pd XXXIII 145 si troverà in α (“l’amor che move il sole e l’altre stelle”), in conformità all’usus scribendi di If I 38 (“e ’l solmontava ’n su con quelle stelle”), mentre in β si ha finalmente lectio difficilior: “l’amor che move ’l cielo e l’altre stelle”, cioè l’amore che muove il cielo visibile dal nostro emisfero e il cielo visto dall’altro emisfero, quello con le stelle “non viste mai” (Pg I 24) se non da Adamo, Eva e Dante.