Dante, Lonzi e la storia letteraria
Di Federico Sanguineti
Una volta per tutte è venuto il momento di affermare che ha poco senso occuparsi di letteratura se non si conosce l’opera di Carla Lonzi, per almeno due motivi: il primo, di per sé evidente, è che nessuna e nessuno può prescindere da testi come Sputiamo su Hegel o Taci, anzi parla. A chi ha scritto questi due capolavori spetta di diritto un posto di assoluto rilievo nel panorama culturale, entro e oltre i confini del Novecento. Grazie a tali opere si aprono, per il contenuto, orizzonti di pensiero inedito a cui si accompagna, sul piano formale, una scrittura senza precedenti. Nel caso, per esempio, di Taci, anzi parla ci si trova di fronte a una sorgente pressoché infinita di configurazioni: abbozzo, brano antologico, citazione, diario, esternazione, filosofia, gioco, improvvisazione, lacerto, minuta, novella, osservazione, prosimetro, quadro, racconto, sogno, teatro, utopia, zibaldone. In breve: enciclopedia del dicibile, dove pubblico e privato convergono infrangendo, in dialettica della vita quotidiana, ogni possibile ipocrisia borghese. Il secondo motivo è l’apertura di squarci che illuminano l’intera storia letteraria. A sorpresa, nel libro intitolato Vai pure non manca la più elusa delle domande: “ma perché Dante ha scritto tutto quello che ha scritto con Beatrice in testa?”. Da un lato, ci si chiede in effetti perché una “donna come Beatrice”, in quanto “simbolo dell’autenticità”, non implichi anche “il conflitto”, giacché l’autenticità vissuta nel reale “diventa un conflitto”. Intesa in questo modo, Beatrice “appunto non è reale”, ma, come si riconosce nel De vulgari eloquentia, è “fictio”, cioè poesia. E va da sé che una donna reale, in quanto femminista, non possa “accettare di essere usata come creatura simbolica”, anzi è giusto che si assuma “la fatica di non esserlo”. Eppure non basta: è consapevole persino che meriterebbe di “essere riconosciuta come una che scrive bene”, cioè “una letterata”, sebbene non in termini che possano interessarle, dal momento che per la Beatrice reale, in quanto “la donna è dialogo”, ‘Paradiso’ significa “poter esercitare questo dialogo con un altro”. Nasce così l’idea del ‘Paradiso’ come “dialogo con l’altro”. Ed ecco: “La donna avverte fortissimo tutto ciò che avviene tra gli esseri, e l’esigenza di dialogo, di analisi reciproca, che è poi il rapporto, tende a metterlo in evidenza; mentre l’uomo è indotto a non soffermarsi su questi legami proprio perché ha bisogno di sentirsi unico protagonista”. Allora sorge il conflitto: “Perché l’immagine che l’uomo ha di sé è fuori dal rapporto, mentre la donna vive se stessa nel rapporto”. Ne consegue il maschilismo insito nel sapere borghese: “L’uomo è cosciente dello scatto culturale in avanti perché è cosciente del suo aspetto pubblico; lì essendo tutti uomini non sfugge niente, perché ognuno dice ‘guarda che questo è mio, quello non è tuo, questo l’ho portato io, quello non ti spetta, io…’ è un mondo articolatissimo, strutturatissimo, gerarchizzato in cui l’uomo non può comportarsi in trance, deve sempre essere sveglio, e ci pensa l’altro a tenerlo sveglio”. Qui, grazie a Carla Lonzi, è finalmente cólta la differenza fra ‘Inferno’ maschilista della concorrenza borghese e ‘Paradiso’ femminista di una Beatrice reale.