di Antonio Nappi*
Undici parlamentari eletti nel Salernitano traggono in inganno. Stando al risultato tutt’altro che trascurabile, si potrebbe ipotizzare uno stato di salute eccellente della politica locale, ma tutti sanno che non è così. Complice una legge elettorale che, tra le altre aberrazioni, consente le candidature plurime, alcuni dei nuovi eletti sono stati letteralmente acciuffati per i capelli e catapultati a Roma. Gli stessi, con un sistema elettorale meno illiberale e contorto, non avrebbero messo il naso fuori dalla cinta muraria dei propri quotidiani confini. Un primo spunto, in proposito, ci dà la misura di come il risultato maturato con il voto di domenica non sia indice di salute politica della città e di effettiva capacità aggregante dei neoeletti: due degli onorevoli salernitani nuovi di zecca sostennero, nelle passate elezioni a sindaco, la preside Elisabetta Barone che, al di là di una decorosa affermazione personale, non riuscì nemmeno alla lontana a insidiare l’uscente Enzo Napoli, nonostante gli scricchiolii della poltrona di quest’ultimo e la notevole riduzione dei consensi ottenuti rispetto alla prima elezione. È il caso, quindi, di analizzare e comparare i dati con prudenza e libertà di giudizio, se si intende conferire ad essi un valore di test per la realtà locale. Si potrebbe obiettare che undici parlamentari, tutti appartenenti a sponde anti-deluchiane, sia pure “geopoliticamente” distanti, costituiscano un elemento valutativo imprescindibile, specie se si considera che il “potere-mondo De Luca”, in queste elezioni, ha come punto all’attivo, nel proprio controverso e brontolante feudo, soltanto l’elezione del figlio del governatore, blindato nel listino (al netto della neosenatrice Camusso, catapultata dall’alto). Tutto ciò è vero, ma il PD nel Salernitano è rimasto in linea con il trend negativo nazionale, migliorando addirittura nel capoluogo, nonostante la formidabile escalation della destra e i successi clamorosi, anche personali, di Edmondo Cirielli e Antonio Iannone di Fratelli d’Italia. Questa evidenza del dato Dem non va taciuta, perché una pubblicistica e un attivismo di occasione, scaturiti dallo scontento personale di alcuni e da strategie editoriali nazionali, hanno tentato per il tempo della campagna elettorale di descrivere la Campania e Salerno come la sola palude italiana della sinistra, o una delle più disastrate, vaticinando nel Capoluogo e nella provincia il contraccolpo negativo più vistoso e irreparabile del PD sul piano nazionale. La realtà salernitana, invece, si è omologata a quella nazionale e meridionale e il maggiore partito della sinistra, anche a causa di scelte nazionali strategiche poco illuminate (dalla fumosità dei temi-cardine sottoposti all’elettorato all’annullamento improvvido del previsto campo largo), è rimasto stretto – qui come altrove – nella doppia morsa della destra e dei 5Stelle, come d’altra parte i sondaggi della prima e dell’ultima ora avevano ampiamente previsto. Nulla più e niente di meno, si può ben dire, rispetto all’esito palmare della competizione dalle Alpi alla Sicilia. Nessun dubbio, per carità, sulla sconfitta di Letta, che entro qualche mese proprio a causa della débâcle del 25 settembre lascerà la segreteria del PD, nonostante i recenti successi registrati nelle ultime amministrative. Il suo partito, che avrebbe dovuto rinnovare la politica italiana e per farlo ha cambiato nove segretari in quindici anni, d’altra parte, non è riuscito a darsi un’identità e una linea, scegliendo la pratica del governo ad ogni costo rispetto al lavoro politico e alle strategie riformiste più attente ai bisogni e ai drammi delle comunità, condizione di disagio resa insopportabile prima per i postumi della pandemia e poi per la guerra in Ucraina. Una pratica di governo e “dei” governi locali, quella dei Democrat, utilizzata molto spesso come strumento di controllo e allargamento del consenso, come De Luca ed Emiliano, impareggiabili cattivi maestri, insegnano. Si è così determinata una frattura tra le istituzioni e il corpo elettorale, sistematicamente inascoltato nel racconto dei suoi bisogni e dei suoi drammi, al punto che i 5Stelle si sono auto candidati, senza alcuna legittimazione, a svolgere nel Sud un ruolo di forza progressista marcatamente frontista. Un vuoto, questo lasciato dal maggior partito della sinistra, che viene utilizzato, quindi, da altri come spazio di manovra e di operatività politico-strategica. Si addensa, pertanto, qualche dubbio sulla credibilità e sulla “produttività” politica di campagne salernitane anti De Luca, sospette, in alcuni casi, nei tempi e, in altri, nelle motivazioni. Il primo dubbio è questo: a chi parlano queste campagne? È difficile ipotizzare che si rivolgano (e convincano) l’elettorato. De Luca e il suo sistema, infatti, sono in campo da più di trent’anni, per cui o le critiche non sono ben calibrate e, quindi, non arrivano a destinazione, oppure non sono ritenute credibili e, forse, nemmeno verosimili. O gli autori delle ricorrenti reprimende, altra ipotesi, non hanno un obiettivo politico da raggiungere ma soltanto un’autoreferenza da coltivare e irrobustire. Certo è che l’assenza di valore politico delle critiche al governatore (se non si registra l’effetto ultimo, la specificità viene meno) lancia un pesante interrogativo sulla fondatezza dei percorsi prescelti e rilancia la necessità di agire, se ancora possibile, proprio all’interno del PD. Si obietterà: così com’è ridotto e controllato il partito, il campo è impraticabile, “putinianamente” sorvegliato. La controreplica nasce spontanea: può riassumersi l’attività di un militante ostile, peraltro con nuove o vecchie responsabilità assunte e ricoperte nel tempo, concretizzarsi nell’abbandono del partito o nella rinuncia a una candidatura non garantita? Se si resta nell’area politica, la risposta è no. In caso contrario, bisognerebbe concludere che l’aspirazione di taluni è quella di cambiare la storia senza alcun lavoro di base, utilizzando cioè proprio metodi e soluzioni che sono quelli imputati alla odiata “razza padrona”, che è refrattaria alla democrazia di base. Il PD, ancora frastornato dall’onda d’urto della sconfitta, a livello centrale, promette di avviare una lunga fase precongressuale per ricreare le condizioni e le basi di un’alternativa politica alla destra. Come lo farà, con un’operazione, l’ennesima, di maquillage o con l’attesa rifondazione non è dato di saperlo; certo è che l’ora è grave e non è da escludere che possa verificarsi, in tempi non prevedibili, un lavoro finalizzato a realizzare perlomeno un “campo largo” di opposizione alla destra, quanto mai opportuno. E in Campania? E, soprattutto, a Salerno potrebbe crearsi una sintonia con questo labile fremito d’orgoglio nazionale? De Luca non cambierà, questo è certo. La sua politica identifica da sempre partito, potere e istituzioni, un connubio che genera disamministrazione, ruvido clientelismo, familismo amorale e, in qualche caso, immoralità gestionale. Tra l’altro, il personaggio burlesco che il governatore si è modellato sul volto appare giorno dopo giorno più malinconico e démodé, creando assuefazione, assopimento, indebolimento del senso del tempo, laddove occorrerebbe rinnovare e dilatare il sentimento politico della vita, aprire gli orizzonti a nuovi e concreti obiettivi che aprano le porte al consenso autentico e non per il tramite di mance e prebende distribuite a destra e a manca. Ma De Luca l’8 maggio prossimo compirà 74 anni e il futuro, alla sua età, acquisisce un’inquietante rapidità e fuggevolezza. Inutile, quindi, attendersi da lui improbabili inversioni di rotta. De Luca sr, però, ha anche due figli. Il maggiore, Piero, l’11 giugno prossimo compirà 43 anni. È già deputato da 5 anni ed è stato rieletto l’altro giorno senza dover attendere con ansia lo scontato risultato positivo. Diciamo che non ha fatto nulla (o quasi) per essere ciò che è e aggiungiamo che, probabilmente, senza la pesante e decisiva ascendenza paterna che si ritrova, a Roma sarebbe andato in gita o per il suo lavoro di avvocato. Tuttavia egli c’è e, a quanto pare, segue pedissequamente le orme paterne. I metodi del genitore però non pagano più, l’erosione del suo potere si fa vistosa. Perché, dunque, Piero De Luca non inverte la rotta, aprendo le porte del partito alla dissidenza, facendo entrare aria pure nelle sale ammuffite del PD, sostituendo amici e sodali con energie e facce nuove, senza crearsi il problema del controllo e dell’affidabilità, prendendo le distanze dal papà, creando cioè una sana frattura sulla quale costruire un futuro anche suo? Sarebbe una rivoluzione e una risposta ai molti sterili attacchi al potere di cui è beneficiario, ma soprattutto, potrebbe cominciare a fare da solo, creando per sé la legittimazione che gli manca e per la città e la comunità politica spazi di libertà e di democrazia. Certamente non lo farà, ma i metodi di papà sono diventati inattuali e il trentennio di potere del quale ha beneficiato si contrarrà, per lui, al massimo in un triennio, sempre che tutto vada tutto bene. Ci pensi, è un’occasione per ri-nascere libero e cominciare a essere un soggetto politico oltre che un uomo. A 43 anni è un dovere.
* salernitano iscritto al PD, residente in Lombardia