Peppino Pistolese, Dc, libri e Salernitana - Le Cronache
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Peppino Pistolese, Dc, libri e Salernitana

Peppino Pistolese, Dc, libri e Salernitana
di Matteo Gallo

Dal giuramento di Ippocrate a Palazzo Guerra. Dall’assistenza ai malati alla cura della città. E’ un viaggio di andata e ritorno per la politica quello che porta il dottore Giuseppe Pistolese, presidente della Lega per la lotta contro i tumori di Salerno, alla fine degli anni Ottanta tra i banchi dell’assise e della giunta comunale con la Democrazia Cristiana. Una esperienza intensa e per certi versi segnata della radici familiari. Scritta a rilievo nel suo codice genetico. Perché lui, medico classe 1943, due figli e quattro nipoti, studi classici al liceo Tasso e laurea all’Università di Napoli con abilitazione alla professione nel 1969, già primario di medicina trasfusionale a Battipaglia e al ‘San Leonardo’, vanta per sponda paterna e materna una importante tradizione di impegno pubblico nelle istituzioni. «Mio nonno materno, l’avvocato Matteo Rossi» racconta Pistolese «è stato il primo sindaco di Salerno eletto democraticamente nell’età repubblicana. Era un liberale. Mio nonno paterno invece, di nome Giuseppe, farmacista a Muro Lucano, paesino della provincia di Potenza,  ha pagato con la vita l’opposizione al regime fascista mentre suo figlio, mio padre Armando, anche lui avvocato, aveva maturato legami di parentela con Francesco Saverio Nitti: economista, politico, saggista e antifascista, presidente del Consiglio del Regno d’Italia.  Entrambi i rami familiari sono stati per me ragione di profonda ispirazione ideale e hanno rappresentato una spinta concreta all’impegno in politica e nel sociale».
Dottore Pistolese, quale il suo primo approccio con la politica salernitana?
«Il mio primo approccio con la politica è segnato dal rapporto di stima e amicizia con Ennio d’Aniello, sindaco di Salerno nel 1981 e parlamentare con il partito repubblicano, persona di specchiata onestà e grande rigore morale che ha sempre dimostrato, nella sua attività politica, grande attenzione al settore della sanità e alla professione medica».
Quando, invece, l’incipit del rapporto con la Democrazia Cristiana?   
«Il mio rapporto con la Democrazia Cristiana,  partito al quale legherò per intero la militanza politica e l’esperienza al Comune di Salerno, nasce raccogliendo  l’invito di Carlo Chirico e di Gaspare Russo a  far parte della grande famiglia dello Scudo Crociato. La mia adesione avviene per la profonda condivisione dello stesso mondo valoriale e sulla base di una precisa volontà:  portare nell’attività politica l’esperienza della professione medica e la vocazione per l’attività di volontariato nel sociale.  Fin a quel momento  avevo sempre vissuto in prima linea, come medico, questo impegno  sul territorio e consideravo l’azione di prossimità un dovere dell’uomo privato come dell’uomo pubblico. La militanza democristiana è stata intensa e con vinta e mi ha visto legato in modo particolare proprio a Gaspare Russo».
Quando il suo primo impegno elettorale?
«Nel 1985 alle elezioni per il Consiglio comunale di Salerno. Fui candidato naturalmente nelle liste della Democrazia Cristiana. Era la mia prima esperienza elettorale e la vissi  naturalmente con emozione, entusiasmo e impegno. Il voto dei cittadini salernitani mi premiò al primo colpo».
Che ricordo ha di quella esperienza?
«Nella memoria di quella stagione custodisco un ricordo importante. Tra consiglieri comunali esisteva un rapporto di rispetto,  stima e amicizia al di là delle appartenenze ideologiche e delle bandiere di partito. Eravamo consapevoli della responsabilità del ruolo istituzionale e vivevamo l’impegno pubblico con serietà e rigore ma anche costruendo rapporti personali sinceri. Essere amici, rispettarsi e stimarsi non significava deporre le armi della battaglia politica. Tutt’altro. Il confronto, spesso duro, era però strumento al servizio di quella sintesi necessaria al raggiungimento degli  obiettivi per la città di Salerno e per la sua comunità di donne e uomini».
In quegli anni, dal 1985 al 1987, sindaco di Salerno sarà l’avvocato Michele  Scozia, autorevole esponente della Democrazia Cristiana.
«Un gran signore. Una persona saldamente ancorata ai principi della moralità e di straordinaria umanità. Una volta, durante i lavori della giunta, fecero irruzione i disoccupati organizzati. Vivemmo attimi di grande tensione e non fu facile tornare alla  normalità. Rimasi colpito dalla reazione del sindaco Scozia di fronte all’accaduto.  Il primo cittadino era visibilmente scosso. Non per il timore di essere aggredito ma perché viveva con sofferenza l’impossibilità di aiutare concretamente -nella drammaticità della immediatezza- quelle persone senza occupazione».
Alla sua prima esperienza a Palazzo Guerra le saranno affidate le deleghe a Sport, Spettacoli, Turismo e portualità turistica.  Una bella responsabilità…
«Inizialmente non fu facile per il sindaco Scozia trovare la quadratura sulla composizione della giunta.  Quando questo avvenne, e il mio nome sarà tra gli assessori della sua squadra, provai un senso di orgoglio ma anche di grande responsabilità per il compito a cui ero stato chiamato».
Quale fu la caratteristica principale del suo assessorato?
«Il rigore dei tempi. Non mi riferisco solo alle tempistiche amministrative che andavano rispettate. Mi riferisco proprio alla puntualità con cui mi presentavo agli incontri così come alle sedute consiliari e della giunta. Rispettavo in maniera rigorosa l’agenda di lavoro senza mai venire meno ai miei impegni. Il consigliere  Florimonte amava chiamarmi, proprio per la mia indolenza nei confronti dei ritardi,  la “maglia rosa” della puntualità. Mi portavo dietro questa abitudine  dalla professione medica. Non ho mai voluto far aspettare i miei pazienti e ho sempre preferito aspettare io al posto loro. La puntualità è una dimostrazione di rispetto verso gli altri e nei confronti di se stessi e del proprio lavoro».
Sui tempi la politica incespica spesso…
«E’ vero. Ma proprio grazie a quella esperienza diretta ho avuto la possibilità di apprendere una preziosa lezione di verità sui tempi della politica».
Quale lezione?
«Molto spesso l’accavallarsi dei problemi e la farraginosità della burocrazia costituiscono la principale causa delle lungaggini dell’azione amministrativa e della sua intempestività rispetto alle esigenze dei cittadini. Non c’entra sempre la cattiva politica. La volontà degli amministratori pubblici urta troppe volte contro la realtà. Se non avessi vissuto la macchina comunale dall’interno non avrei mai potuto fare esperienza concreta di questa situazione-condizione che per molti versi è frustrante per un amministratore pubblico locale».
Quali i punti centrali su cui focalizzò il suo impegno da assessore?
«Sullo sport lavorai in continuità con il grande lavoro svolto dal mio predecessore e compagno di partito nella Dc, Antonio Zinna. Rispetto alla questione del  nuovo stadio, nello specifico, mi impegnai affinché non fosse più collegato sul piano amministrativo  l’esproprio del terreno con il progetto della sua edificazione. L’obiettivo era rendere i passaggi burocratici più snelli e l’intera procedura per la costruzione dello stadio più veloce. Ci riuscimmo».
E in materia di cultura, turismo e portualità turistica?
«Con l’architetto Gianni Ciotta lavorammo alacremente per “restituire” alla città il Teatro Verdi, allora chiuso per il  mancato rispetto di alcuni standard collegati all’agibilità. Nella stagione estiva continuai a puntare  sul cinema all’aperto allo stadio Vestuti, in pieno centro cittadino, importante  punto di riferimento per i  giovani e per le famiglie. Relativamente al  porto turistico -allora  un eterno cantiere a cielo aperto-  mi adoperai  con successo per consegnarlo  nella piena disponibilità della comunità salernitana.  In materia  turistica, nel delicato e gravoso lavoro da assessore al ramo, devo riconoscere di essere stato aiutato in maniera significativa da Alfonso Andria, grande conoscitore della materia che nonostante la giovane età aveva già maturato una lunga e qualificata esperienza come dirigente dell’Ente provinciale per il turismo».
Quali i suoi principali compagni di viaggio in quella stagione politica e amministrativa?
«Come prezioso compagno di viaggio ricordo con grande affetto l’ingegnere Dino Milanese, la cui dipartita mi ha provocato un profondo dolore.  Allo stesso modo conservo un ricordo affettuoso di Nino Colucci ed Enzo Fasano,  consiglieri del Movimento sociale,   di   Giuseppe Cacciatore, Fulvio Bonavitacola e Ciccio Florimonte. Sentimenti positivi mi legano al ricordo dei repubblicani Nicola Scarsi, Italico Santoro e Ferdinando Cappuccio e, tra i colleghi democristiani, a Salvatore Memoli, Alfonso Andria, Tino Iannuzzi e Antonio Zinna».
Quali, invece, i suoi principali avversari?
«Il clima  di rispetto, stima e  amicizia caratterizzava  la vita all’interno della Democrazia Cristiana – il mio partito –  così come il rapporto con le altre forze politiche e i loro rappresentanti in Consiglio comunale. Per questa ragione gli scontri, che naturalmente esistevano, non mi hanno mai portato a provare sentimenti di inimicizia verso qualcuno né tanto meno a vedere i colleghi di altri partiti come avversari o peggio ancora come nemici. Certo, avevamo idee differenti e il confronto non era avaro di una certa durezza. Ma sul piano umano i rapporti restavano inalterati ».
All’interno della Dc solo rose e fiori?
«Ho avuto qualche divergenza provocata dal mio approccio, in un certo senso fuori dalle logiche di partito,  all’incarico di assessore. In quei due anni non ho mai considerato un elemento degno di nota l’appartenenza politica delle persone che si rivolgevano al mio ufficio. Con Andrea Carraro ad esempio, persona vicina al partito socialista e anima di un piccolo teatro nei pressi del cinema Apollo, avevo un rapporto di sincera e reciproca stima. Per questa ragione, quando il suo teatro ha rischiato la chiusura, gli sono stato vicino al di là delle bandiere di partito. Da assessore  democristiano andai  ad un suo spettacolo, sedendomi tra l’altro in prima fila,  per esprimergli plasticamente, direi fisicamente proprio, il mio sostegno personale e politico».
Nel 1987 il cambio della guardia al Comune di Salerno: Dc all’opposizione e maggioranza di governo guidata dal sindaco socialista Vincenzo Giordano.
«Cambia la storia politica e amministrativa di quella stagione ma non la storia dei rapporti personali tra noi consiglieri comunali né tanto meno  l’impegno che ognuno di noi, a quel punto dai banchi dell’opposizione, profuse nell’interesse esclusivo della comunità salernitana. Come Democrazia Cristiana vigilammo sul lavoro della nuova maggioranza di governo pungolandola e strigliandola quando ritenemmo doveroso farlo».
La giunta laica e di sinistra guidata dal sindaco Vincenzo Giordano passerà alla storia come “laboratorio politico socialista”.
«Senza dubbio fu una giunta caratterizzata da una grande spinta innovativa.  Naturalmente questo “sperimentare”,  che appunto troverà la sua giusta sintesi letterale nella definizione di ‘laboratorio politico’, non ebbe immediatamente davanti a sé una strada spianata. I cambiamenti, in qualsiasi campo, incontrano sempre all’inizio delle resistenze. Lo dico senza rinnegare la mia appartenenza alla Democrazia Cristiana e senza tradire a posteriori il ruolo che, proprio dai banchi dell’opposizione, insieme ai miei compagni di partito, svolsi in quegli anni».
Lei si ricandiderà con successo l’ultima volta nel 1990. Perché decise di fermarsi?
«Durante la permanenza a Palazzo Guerra, nella veste sia di assessore che consigliere comunale di opposizione,  saltò completamente la possibilità  di dedicarsi alla  professione  medico. Che era e restava la mia ragione di vita. Andavo al Comune alle otto di mattina e facevo ritorno a casa non prima delle cinque di sera, talvolta tirando fino quasi alla mezzanotte quando gli impegni erano tanti. Avevo da sempre improntato la mia esistenza sul giuramento di Ippocrate e non avevo intenzione di rinunciarvi ulteriormente. Per questa ragione, nonostante le ripetute sollecitazioni da parte dei miei amici democristiani, decisi di non candidarmi più per  tornare a pieno regime alla professione medica e all’impegno nel sociale con l’attività di volontariato».
Nel mezzo di quella sua decisione ci sarà Tangentopoli, stagione destinata a cambiare la storia politica italiana e anche salernitana. Qui da noi saranno arrestati, salvo poi essere assolti molti anni dopo, il sindaco Vincenzo Giordano e alcuni uomini di punta di quella amministrazione comunale.  
«Giordano è stato un uomo politico integerrimo. Un esempio di correttezza, moralità ed  etica. Vederlo sotto inchiesta e carcerato fu assurdo e doloroso. Ricordo che in quel periodo provai altrettanta pena nel cuore per l’onorevole Nicola Trotta, già senatore socialista  allora presidente della centrale del Latte di Salerno, un caro amico di famiglia di cui conoscevo la storia personale e la cifra umana, anche lui in quegli anni finito nel mirino delle inchieste giudiziarie».
Da osservatore esterno come giudica lo stato di salute attuale della politica salernitana e della città?
«La città è cambiata così come è cambiata la politica. Non dico migliorata né peggiorata ma, appunto, cambiata. E’ un dato di fatto che appartiene alla realtà della storia, di ogni storia. E’ questa la premessa con cui guardo al presente con speranza e determinazione  senza mai dimenticare ciò che è stato ma anche evitando di avere sempre lo sguardo all’indietro. Ogni cambiamento, nella vita di ciascuno di noi e anche nella vita politica, porta con sé un turbamento. Questo turbamento è passeggero se il cambiamento si trasforma in miglioramento. Diventa purtroppo stabile se il cambiamento  produce un peggioramento».
Quale tipo di ‘turbamento’ appartiene alla sua vita attuale?
«Sono turbato per non aver raggiunto tutti gli obiettivi che mi ero prefissato come medico impegnato nella lotta contro i tumori ma allo stesso tempo sono soddisfatto per gli importanti risultati raggiunti sul piano della terapia e della sopravvivenza. In passato col melanoma si moriva al novantanove per cento. Adesso all’ottanta per cento si guarisce».
Il suo impegno alla Lega nazionale contro i tumori inizia nel 1979, quarant’anni fa,  prima come commissario e poi nella veste di presidente.  
«Vivo questo impegno con la passione e l’energia di sempre ma anche con la consapevolezza che senza adeguate risorse economiche risulta sempre più difficile fare opera di volontariato».
E la politica, da questo punto di vista, ha un ruolo da protagonista rispetto al quale non può tirarsi indietro.
«Assolutamente. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza potrebbe essere determinante da questo punto di vista. Al momento il  Terzo settore sopravvive. Sulla carta i presupposti per fare bene ci sono tutti ma naturalmente bisognerà aspettare la prova dei fatti, l’applicazione concreta del Piano, il modo in cui saranno spesi i soldi a disposizione per affermare con certezza che quel necessario e auspicato cambio di passo è avvenuto».
Cosa ha insegnato la pandemia a chi, come lei, svolge la professione medica sul campo di battaglia?
«Per fronteggiare l’imprevedibilità, l’imprevisto, ci vuole una grande organizzazione.  Bisogna lavorare con stabilità sul pronto intervento programmando, nell’attività ordinaria, tutte le misure e gli interventi che in questi anni hanno avuto avuto gioco forza carattere emergenziale»
Quali sono le sue passioni, oltre alla professione medica e alla politica?
«Per prima cosa la Salernitana. Seguo ancora il calcio mercato con l’entusiasmo di un bambino e non passa giorno senza che mi informi sulla squadra granata. E poi la lettura: sono un divoratore di testi di storia e dei grandi classici della letteratura. Con mia moglie  compriamo quindici, venti libri alla volta per avere, in casa, sempre una scorta sufficiente».
Chi sono stati i suoi maestri nella vita e nella professione medica?
«I professori universitari Giani, Toro e Della Corte. Mi hanno trasmesso la passione per lo studio e l’approfondimento, l’amore e il rigore per la professione medica. Naturalmente, come maestro di vita, mio padre Armando».
Quale l’eredità immateriale che le ha lasciato suo padre?
«Nel suo studio c’era un quadro con una frase stampata al centro: ‘L’onestà non è una virtù ma un dovere’. Ne ho fatto una ragione di vita».