Pecoraro: Non basta il reato di femminicidio - Le Cronache Ultimora
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Pecoraro: Non basta il reato di femminicidio

Pecoraro: Non basta il reato di femminicidio

di Erika Noschese

 

 

«Occorre puntare sulla prevenzione». A dirlo Claudia Pecoraro, consigliera comunale di Salerno, avvocata da sempre impegnata nella lotta alla violenza di genere.

Avvocata Pecoraro, ennesimo femminicidio in provincia di Salerno. Una vera e propria mattanza…

«Ancora una volta la vita di una donna è stata spezzata per non consentirle di esercitare il più basilare diritto di scegliere. Scegliere di porre fine ad una relazione, scegliere di fare della propria vita quello che desiderava. Ancora una volta ci troviamo difronte al dolore atroce che travolge le famiglie delle vittime. Ai familiari e ai figli e alla figlia di Tina Sgarbini va la mia più intima e profonda vicinanza. Ancora una volta assistiamo al rincorrersi di voci, notizie mezze masticate, ricostruzioni postume di verità taciute, ma conosciute, in una comunità che si sveglia pietrificata e incredula. Ed è sempre una volta di troppo».

Si parla di una coppia apparentemente serena. Nessun segnale, nessuna denuncia. Come si può arrivare a commettere un crimine così?

«La realtà è sempre molto più complessa di quella che si racconta, e un pezzo alla volta alcuni elementi stanno iniziando ad emergere. Tina Sgarbini aveva scelto di interrompere la relazione, non esisteva più una coppia, e i vicini hanno iniziato a parlare di litigi e urla provenienti dall’appartamento quando la relazione era ancora esistente. Detto ciò, il reato di femminicidio poggia le sue radici e ragioni in una cultura misogina e patriarcale che fa della donna un oggetto di possesso, di dominio, di controllo e di non riconoscimento del suo diritto e potere di autodeterminazione e scelta. La donna è una proprietà (la mia donna!), e al pari di ogni oggetto posseduto non può liberamente scegliere di avere una vita altra rispetto a quell’uomo, a meno che non sia lui a volerlo. All’interno di questa cultura, di questo modo di interpretare e vivere le relazioni, il femminicidio diviene l’atto finale di una spirale di violenza e privazioni, sopraffazione e svilimento, in cui semplicemente la donna non ha il potere di scegliere, e quando prova a prenderselo, viene punita, viene ammazzata. E non è mai un raptus, non è una perdita momentanea di lucidità o coscienza, è un’azione volontaria posta in essere perché non si rispetta la libertà di un altro essere umano di scegliere per sé stessa. Se non mia, di nessuno. Consentimi, inoltre, di aggiungere una riflessione su questa tua domanda e sul suo secondo incipit. Da Avvocata penalista, specializzata in violenza di genere, ogni giorno nei tribunali difendo donne vittime della violenza maschile, e i segnali ci sono sempre, ma denunciare non è come andare a fare una passeggiata al centro commerciale. I segnali ci sono sempre, ma viviamo in una società in cui una cosa esiste solo se è pubblica, o pubblicata. Nessuna donna va in giro a raccontare di vivere in una relazione maltrattante per una serie infinita di ragioni: per vergogna, per paura, perché crede di poter “gestire” quell’uomo, perché pensa di poterlo semplicemente lasciare e andare avanti con la propria esistenza. Le donne denunciano quando arrivano allo stremo. Quando sono esasperate, quando non sanno più come fare. Nessuna donna sceglie di denunciare con leggerezza, perché sanno a cosa andranno incontro. Processi lunghi in cui siamo ancora noi donne che denunciamo a finire sul banco delle imputate, a venire giudicate perché ci siamo state troppo tempo o troppo poco, perché volevamo uscire con le amiche o mettere le gonne corte, andare a ballare da sole o leggere letteratura erotica. Insomma, sotto questo profilo, l’Italia non è un paese per donne».

I casi di donne vittima di violenza, sono in aumento. Secondo lei perché?

«Le donne stanno iniziando ad avere sempre più consapevolezza delle dinamiche della violenza e le riconoscono prima rispetto agli anni passati, e questo grazie ad una grande e fondamentale opera di sensibilizzazione che sul tema fanno le associazioni femministe e i centri antiviolenza, oltre che le istituzioni. Questo vuol dire che la dinamica della violenza, che segue un incremento nel tempo, subisce una contrazione temporale perché la donna tende a provare a interrompere prima la relazione, a ribellarsi al sistema di dominio e controllo che le vuole essere imposto, e allora l’uomo inizia ad alzare l’asticella della violenza per tentare di indurla a quella posizione di sopraffazione. Quello che si osserva leggendo i dati Istat e del numero di pubblica utilità anti violenza e stalking 1522 è che l’età media si sta preoccupantemente abbassando, e la dinamica della violenza sta diventando sempre repentina e grave. Stiamo attraversando un periodo di trasformazione sociale e culturale importante, e i casi esistono perché le donne si ribellano».

Perché le donne faticano a denunciare i loro carnefici?

«Come dicevo prima, denunciare è una scelta faticosa, socialmente ed emotivamente. Innanzitutto significa rendere pubblico un pezzo di esistenza molto privato, e non sempre si ha la forza e la volontà di farlo, spesso si crede, si spera, che mettendo fine alla relazione tutto finisca. A ciò si aggiunge tutto il peso di un procedimento penale, l’intervento dei servizi sociali ove ci fossero figliə minori, la non puntuale attuazione della normativa internazionale di riferimento da parte di qualche consulente tecnico nominato dal Tribunale civile, la mancanza di formazione sul tema di tuttə gli operatori istituzionali, e allora la donna si sente sopraffatta, e ancora più spaventata. Troppo spesso leggiamo notizie di sentenze che condannano uomini violenti a pene irrisorie, scontate in regime di affidamento alla prova, senza l’attivazione di percorsi seri di sostegno e rielaborazione, e questo scoraggia le donne. Però io credo fortemente nella giustizia, nel suo valore e nel suo peso, e ogni giorno vedo la fatica con cui la magistratura prova ad arginare un fenomeno sociale che, in quanto tale, deve trovare soluzioni nella sua genesi, non nelle sue conseguenze. Quello che mi sento di dire alle donne che vivono una relazione violenta e impari, è che non sono sole, che esistono dei luoghi, i centri antiviolenza, dove possono trovare ascolto e accoglienza emotiva. I centri Antiviolenza lavorano nel rispetto della privacy e dell’anonimato e sostengono le donne nel loro percorso personale di rielaborazione e fuoriuscita dalla violenza, le accompagnano durante tutte le tappe, anche legali, e sono sempre al loro fianco. Quando le donne che assisto sono anche seguite da un centro antiviolenza, affrontano i processi con più serenità, si sentono più forti e hanno meno paura, perché non solo sole».

Introdotto il reato di femminicidio, crede possa essere una soluzione?

«L’introduzione di un nuovo reato non è mai la soluzione, e questo è per me un criterio generale. Nel nostro sistema penale l’introduzione di un nuovo reato avviene quanto la società riconosce in quell’evento o in quella condotta qualcosa di antisociale, quindi risponde alla logica dell’intervento postumo, quando, cioè, il sistema valoriale di riferimento è già stato violato. Sicuramente l’introduzione del reato di femminicidio ha un suo peso perché riconosce la matrice culturale dell’atto omicidiario, ma non è assolutamente una soluzione, perché non interviene sul problema. Non è grazie al reato di femminicidio che le donne smetteranno di essere ammazzate».

Quali strumenti potrebbe adottare la politica nazionale per fronteggiare questi reati?

«Una sola parola: prevenzione. Occorrono interventi strutturali in ambito sociale e culturale, l’attuazione di programmi educativi e di sensibilizzazione, la formazione per gli operatori e le operatrici dei comparti dei servizi sociali, delle FF. OO., della sanità, della magistratura. Occorre educare i bambini e le bambine al rispetto dell’altrə, della sua libertà e autodeterminazione, insegnare loro che ognunə è libero di scegliere e di cambiare idea anche dopo aver scelto. Servono programmi scolastici adeguati, l’introduzione dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole. Serve un cambiamento di linguaggio e anche i mezzi di informazione hanno un ruolo importantissimo, fondamentale. Ho letto gli articoli scritti sull’omicidio di Tina Sgarbini, che come quelli redatti per le altre donne morte ammazzate, replicano gli stessi stereotipi informativi: un raptus, lei lo aveva lasciato, forse aveva un altro, lui un bravo ragazzo. Il femminicidio non è un raptus. I bravi ragazzi non ammazzano le donne. Le scelte di libertà di una persona non hanno niente a che fare con la scelta di un’altra di ammazzarla. Questo cambiamento sociale è in atto, ma ora occorre fare di più. Servono fondi ed interventi organici nei settori dell’educazione e della formazione, perché la matrice della violenza di genere, di cui i femminicidi sono l’apice, è culturale e solo modificando il modello relazionale introiettato potremmo davvero trovare la soluzione e garantire alle nostre figlie e ai nostri figli il diritto di vivere in una società che riconosce loro la libertà di scegliere».