Di Olga Chieffi
Pier Paolo Pasolini costituisce l’unico caso di letterato che fa cinema come letteratura, come poesia, come drammaturgia, come parola, come visione. Il suo è un cinema scritto secondo moduli nuovi, della cui novità si avvantaggiano e cinema e letteratura. Egli ha tentato, infatti, sul cinema l’operazione strutturalista secondo cui esiste il “cinéma” come esiste il fonéma e lo stiléma, nella lingua e in letteratura. Da questa scomposizione, che trapassa orizzontalmente ogni spartizione in generi letterari, egli ha potuto ricostruire una sua visione integrale della realtà se vogliamo artisticamente totalizzante nella sua circolarità di equivalenze. Tale visione gli ha permesso di buttarsi nel cinema, come nella letteratura, con la sua intera misura di uomo senza residui né reticenze. Per cui il cinema, nella sua polivalenza artistica, è per lui vita. E se la letteratura, già in certo senso, rivela tensione verso la struttura cinematografica (si pensi a Teorema, ma anche a Ragazzi di vita e a Una vita violenta), il suo cinema, per converso, ne rivela una verso la struttura letteraria e poetica. In mezzo sta la sceneggiatura, una struttura dinamica “una forma che si muove verso un’altra forma” come ebbe a dire. La mediazione culturale è, infatti, fortissima nella sua opera, anche quando sembra essere più che mai mimetica del reale, perché cultura e realtà nascevano, in lui, fortemente connesse, ciò che a nostro avviso lo terrà a debita distanza dal populismo vero e proprio, il quale non conobbe la dimensione metaforica e simbolica e fu spesso mancante di quello spessore storico-culturale che, invece, costituiranno il terreno più solido della visione pasoliniana della vita e dell’arte. Edipo re può rappresentare uno dei tanti esempi di come un dato culturale, addirittura mitico, pesca sempre, e ritorna, nel cuore della vita, perché è per essa che Pasolini si sentiva mobilitato all’arte. La tendenza moralistica o moraleggiante non è assente dall’opera di Pier Paolo. Il suo esordio avviene con Accattone nel 1961, in cui i temi e le forme dei suoi precedenti romanzi trovano un originale corrispettivo filmico: il sottoproletariato dei ragazzi di vita, la periferia romana, una condizione subumana di esistenza , diventano i contenuti anche del successivo film Mamma Roma, simbolo di un superato neorealismo. Nel Vangelo secondo Matteo, Pasolini recupera il mito e la storia, la poesia e la critica, in una stordente e filologica interpretazione del testo evangelico , sostanzialmente trasfigurato e riassorbito in una gesamtkunstwerk, i cui elementi letterari, pittorici, musicali sono “bruciati” e depurati in una straordinaria forza espressiva. Il primo esempio di una considerazione generale delle funzioni di un cinema di poesia si ebbe con Uccellacci e uccellini il suo film più libero, lirico e drammatico, attraverso cui si leva alta la sua più disarmata e disarmante invettiva moralistica e politica. In seguito il discorso critico si è fatto più ampio, con valenze autobiografiche ancor più evidenti, e la riscoperta del mito è andata assumendo un valore di testimonianza che è anche un’indicazione di interpretazione originale della realtà contemporanea, con Edipo Re e Medea: le sofferenze di Edipo giungono sino alla Bologna degli anni Sessanta, mentre quelle di Medea, continuano dal passato della Cappadocia fino al presente del Campo dei Miracoli a Pisa. Il fallimento di ogni azione umana rivolta al disvelamento della verità è rappresentato in Teorema e in Porcile, due film che possono essere considerati i pannelli di un dittico estremamente violento e volutamente irritante sulla crisi dei valori della società borghese. Negli anni Settanta l’indagine di Pasolini si sposta sul sesso, quale costante dell’esperienza umana, elemento tragico che accomuna gli uomini in un’unica materialità esistenziale. Boccaccio nel Decameron, Chaucer in I racconti di Canterbury, l’anonimo autore de’ Il fiore delle Mille e una notte, offrono a Pasolini la materia narrativa per un grande affresco sulla “carnalità” osservata e descritta in tutte le sue manifestazioni e da tutti gli angoli possibili. Ancora una volta, immerso nel mito, il sesso acquista un valore eterno, di scoperta d’una realtà umana primigenia, da cui occorre ripartire per giungere a un’interpretazione nuova dell’uomo e della società. Il regresso a una sorta di verginità primordiale, di istinto vitale, è per Pasolini – in un momento di crisi generale dei valori – una necessità di chiarificazione ideologica e morale. Ma se i due primi film di questa che possiamo chiamare la “trilogia dell’Eros” affondano in un concetto di carnalità come specchio della finitezza dell’uomo, dell’Eros come l’altra faccia di Thanatos; il terzo film pare riscopra il piacere della vita, l’esuberanza dei sensi, la positività del reale. In questa nuova prospettiva, che significa anche un riaggancio all’impegno politico, pur tra lacerazioni ideologiche e profondo pessimismo della ragione, può essere collocato Salò o le 120 giornate di Sodoma, una metafora del potere, che per la tragica morte dell’autore, va considerato il suo testamento artistico e spirituale.





