Paestum, il blitz della ricotta - Le Cronache Ultimora
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Paestum, il blitz della ricotta

Paestum, il blitz della ricotta

di Peppe Rinaldi

 

Tutti sdraiati faccia a terra, mani bene in vista, nessuno si muova. Era il 9 novembre del 2007 quando più di una dozzina di agenti di polizia giudiziaria, alcuni imbraccianti il mitra d’ordinanza, altri con pistola in mano, fece irruzione in un piccolo capannone in località Torricelle di Paestum. Erano arrivati a bordo delle auto di servizio con i lampeggianti accesi, pressappoco alle 5  del mattino, orario tipico dei blitz. Ma chi c’era nel capannone, una cellula islamista infiltrata nella sterminata area di illegalità/inciviltà a cielo aperto del novello «Selestan»? O forse c’era un commando palestinese pronto a fare il tiro al piccione su qualche turista ebreo nella città dei templi? Un summit di camorra? Zingari pronti a depredare case e appartamenti del circondario? No, dentro c’erano pericolosissime caciotte e ricotte, pare non a norma. Pochi chili, un numero di relativi «delinquenti» – in tutto tre – decisamente inferiore alle forze in campo, cioè due operai e un piccolo imprenditore che commerciava latticini. Quel mattino le impavide teste di cuoio, dopo aver loro intimato l’alt e il dietro-front, li fecero sdraiare a faccia in giù, poi li fecero alzare e tornare nel capannone, dove scaricarono la merce poco prima caricata e attesa da chissà quanti altri piccoli operatori del circuito commerciale. Inizia lo show, la tensione sale, sembra di essere in una serie tv ma sempre di mozzarelle e ricotte e formaggi parliamo. Tra l’altro, pure freschi e buoni, come poi si appurò. Questa storia, come un latticino qualsiasi, è fermentata col tempo, tanto da produrre effetti a distanza di quasi vent’anni.

 

Un pezzo di storia

 

Già, perché il recupero alla cronaca dello scoppiettante episodio è stato possibile in quanto uno dei suoi attori, l’oggi comandante dei vigili urbani di Capaccio, Antonio Rinaldi, all’epoca solo vice, s’è beccato una condanna in I e II grado dal tribunale di Salerno poche settimane fa. Un po’ se n’è parlato, un po’ no. L’accusa era di calunnia in danno di un imprenditore del posto, il signor Alberico Cafasso. Costui sarebbe il pericoloso trafficante di caciotte finito nel mirino dell’arrembante squadra di polizia, un gruppo di soggetti noti e meno noti del tempo, in qualche caso tuttora presenti a vario titolo sulla scena pubblica. Punta di diamante fu la signora Marta Santoro, all’epoca comandante della stazione della Guardia forestale di Capaccio, finita in manette successivamente su ordine dell’allora sostituto procuratore Maurizio Cardea, per una serie di taglieggiamenti inferti ad imprese della zona. Al fondo vi era una moltiplicazione anomala di controlli sulle aziende agricole, zootecniche e di varia natura operanti dentro e fuori al raggio di competenza del presidio militare della Forestale, al tempo non ancora assorbita dall’Arma. Lo schema, accertato dalle risultanze investigative e giudiziarie, fu il seguente: in caserma giunge un esposto contro qualcuno, il contenuto del quale risulterà sempre meritevole di approfondimento; sulla origine degli esposti, ovviamente anonimi o di fantasia, è lecito scatenarsi in congetture e illazioni; si parte, quindi, con un blitz sul posto individuato, spesso scioccante nelle sue modalità operative, come avvenne nel nostro caso e pure in diversi altri; al di là dei «motivi» per cui si agiva, un pelo nell’uovo lo si trovava sempre, quindi i sigilli a strutture, sedi sociali e capannoni, scattavano in scioltezza; operazione sempre preceduta o seguita da una telefonata «in procura» attraverso cui si ottenevano o la ratifica di quanto fatto di propria iniziativa oppure l’autorizzazione a procedere secondo certe linee, formalizzando tutto nel secondo tempo, quindi rispettando in pieno la forma della legge. Poi si passava alla fase 2, riassumibile per sommi capi con le parole dette alla vittima e da questi riferite agli inquirenti: “Se tiri fuori i soldi possiamo cancellare tutto, ho/abbiamo amicizie a Salerno, facciamo sparire verbali e sequestri”. Alcuni pagarono, altri no, molti tacquero, altri ancora si accodarono o si accordarono ma il treno era partito, poi sarebbe deragliato, come sempre succede in queste storie. I sigilli agli opifici di tanti imprenditori dell’area – certo non tutti innocenti angioletti ma questo è un altro discorso che, però, non attenua l’obbrobrio dell’estorsione in divisa – resteranno impressi negli occhi e nella mente a lungo, in attesa di un iter giudiziario contaminato e sghembo che, già di suo, recava in dote farraginosità e montagne di carte, figuriamoci con quella tara genetica. Uno strazio, insomma.

 

La corda si spezza sempre

 

L’andazzo durò qualche anno, fino al 2012 quando quel pm e quegli investigatori incrociarono il sistema cui partecipava anche l’allora coniuge e collega della signora Santoro, anch’egli travolto e sommerso dai guai. Riesumare questi ricordi, autentico patrimonio della memoria collettiva, emersi dalla vicenda attuale di un dirigente pubblico condannato per calunnia in I e II grado, ha la sua ratio, come si dice: e, poi, la regola, oggi smarrita fra tante, secondo cui il presente non lo afferri se non conosci almeno un po’ di passato, aiuta sempre.

Il comandante della Polizia Urbana di Paestum, allo stato creativamente «autosospesosi» dall’incarico nello stesso Comune travolto dalla valanga Alfieri, con evidenti conseguenze perduranti, fu presente quel giorno partecipando alla delicata missione anticrimine degna dello Shin Bet. La ricostruzione dei tragicomici frangenti è squadernata nella sentenza di I grado (n. 3563) della I Sezione penale (giudice monocratico Viviana Centola) del 3 ottobre 2024. Uno spaccato della «società» di quel momento, certo non dissimile da quella di sempre, comunque utile a farsi un’idea di certi meccanismi. Non si tratta, però, della sentenza che ha riguardato il blitz anti-ricotta del 2007 bensì di quella relativa alla calunnia originata dallo stesso fatto. Il comandante dei vigili, infatti, denunciò il signor Cafasso perché questi dichiarò in una testimonianza di aver ricevuto richieste di soldi dal duo Santoro-Rinaldi per “mettere le cose a posto”. Insomma, lo schema-tipo sommariamente descritto, anche per Cafasso era arrivato poco prima un esposto maligno, firmato stavolta “Franco Antonio”, che è come dire Mario Rossi o Antonio Bianchi, cioè niente. Invece lo presero sul serio. Ma non fu una storia seria.

Le cose, infatti, non andarono come si potrebbe immaginare ma presero una piega diversa, a tratti esilarante, a tratti preoccupante. Come vedremo. (1-continua)