Orazio Boccia: dalla “fame” alla “fama” - Le Cronache
Editoriale

Orazio Boccia: dalla “fame” alla “fama”

Orazio Boccia: dalla “fame” alla “fama”

La scomparsa del coraggioso imprenditore che saluteremo oggi alle ore 15,30, nella chiesa di San Giuseppe Lavoratore

Di Olga Chieffi

E’ una storia fatta di “fame” di arrivare, di affermarsi, di fame vera quella del cavaliere Orazio Boccia che a novanta anni ci ha lasciato non nello spirito, mai dall’esempio, solo fisicamente. Nel mezzo di questa storia che lui stesso racconta nella sua biografia,  un’ Italia che usciva disastrata dalla guerra, ma che voleva ricostruire fortemente la propria dignità, attraverso quell’amore figlio di Penìa (povertà) e Pòros (la risorsa, l’ingegno), per dirla con Platone. Ha fatto di tutto Orazio Boccia con la sua “banda”, “dai lustrascarpe, sciuscià – racconta nel suo libro “Storia di uno scugnizzo” edito da Guida” – ci chiamavano, c’inventavamo mille trucchi, rubavamo dalle jeep, sbucavamo da ogni parte così fu stabilito il coprifuoco solo per i ragazzi. Alle otto di sera tutti a casa, altrimenti… Mi pescarono tre o quattro volte, volevano mandarmi a Napoli. Intervenne una sorella di papà. Chiese aiuto al dottor Gravagnuolo. Finii al Serraglio”. Il Serraglio era regolato da un doppio sistema di segregazioni, quello esterno, che  lo divideva dalla società civile, e quello interno regolato dalla rigidità degli spazi e dei movimenti, dall’assenza di ogni iniziativa. Come si viveva, cosa si faceva, lo sapeva solo chi ci stava dentro; per quelli di fuori dietro l’alto portone c’era un mondo altro, diverso, lontano, quasi inesistente. “Vestivamo un paio di pantaloni corti, una camicia leggera. Eravamo scalzi perché non c’erano scarpe. E la fame, poi. Quanta fame ho patito allora, tanta che mi sembra a volte di sentirla ancora. Ci davano cento grammi di pane la mattina, altri cinquanta a mezzogiorno e da ultimo, la sera, centocinquanta grammi. Eravamo circa quattrocento ragazzi e ad ognuno toccavano, come “corredo” un cucchiaio, un bicchiere ed un tovagliolo. Chi usciva metteva il tovagliolo nel bicchiere così gli addetti sapevano che non avrebbe mangiato. C’erano due tipi di scodelle, una piccola per quelli fino a quindici anni ed una grande per gli altri. Arrivavano i pentoloni con la zuppa e a mano a mano che si riempivano le scodelle la zuppa diminuiva. Allora il pentolone veniva riportato in cucina. Invece di rifondere la zuppa, che era finita, veniva aggiunta acqua cosicché all’ultimo della fila toccava solo acqua con l’odore della minestra. Non c’era nemmeno bisogno del cucchiaio: la zuppa si beveva e finiva lì. Per tenerci in piedi ci davano l’olio di fegato di merluzzo: na’schifezza” . Mi ricordo che un ex allievo aveva fatto fortuna in America come sarto e allora prese a mandarci scarpe e vestiti, ma non bastavano mai per tutti. Ogni tanto saliva al Serraglio con la moglie e per loro si preparava un bel pranzo.  Tenevano nu’ caniello che lasciavano al guardiano. Io allora mi offrivo per portare da mangiare al cane. Mi davano una ciotola con la pasta e io me la mangiavo al  posto del cane. Poi la riportavo indietro bella pulita e dicevo alla signora che il cane s’era mangiato tutto e che gli era piaciuto assai. Il Serraglio si meritava in pieno quel nome che gli era stato appioppato chi sa quando, chi sa da chi. Orazio lo definisce un mondo animale, fatto di spalmate alle mani con manici di scopa messi a indurire nell’acqua, di ore in ginocchio sulle pietre con le braccia in alto a reggere una tavola. Tuttavia il concentrato della disperazione si consumava nelle ore malinconiche della sera. La notte era crudele; si stava sdraiati su tre tavole di legno con un materasso di paglia, d’inverno senza coperte, stando bene attenti ad evitare le fessure tra una tavola e l’altra. Poi il silenzio si spandeva nel buio sopravanzante, montava  nell’animo e nel cervello una solitudine infinita, un’angoscia che solo il sonno, quando arrivava, riusciva a stemperare. La notte era un tempo disperato popolato di ombre spesse che davano la misura dell’abbandono. Al Serraglio c’erano ragazzi di tutti i tipi, ma io ero fra quelli più svegli, mi sapevo difendere e perciò mi rispettavano pure gli istitutori, tanto che mi nominarono prima “caporale” e poi “capo-scelta” e mi toccò pure un “attendente”: Lucio Del Mastro mi procurava qualsiasi cosa volessi. Con tutti i mezzi”.“Chi c’era con te?”. “Tanti, eravamo tanti; ognuno ha trovato il suo spazio nella vita, molti sono diventati famosi: Gerardo Marotta, che è stato direttore del Banco di Napoli, Iginio Furciniti, anche lui impiegato del Banco di Napoli, il fratello Elio, ragioniere della Forestale, poi Giambattista Cioffi, divenuto un ottimo commercialista, Romoletto Carluccio, economo degli Istituti Professionali, Salvatore Carmando, massaggiatore del Napoli, grande amico di Maradona, e grandi musicisti, perché l’Umberto I° era anche conservatorio di musica: Mario Liguori, flicorno tenore diventò il direttore della banda di Acquaviva delle Fonti; Condolucci, primo clarinetto al Petruzzelli di Bari, Mario Baldino, flautista. Anche io suonavo, il flicorno tenore per essere precisi, ma nella banda mi facevano suonare i piatti. E poi Armando Fagiani, un grande linotipista, altri di cui ricordo solo il cognome: Faiella, maestro di musica, De Stefano, Della Calce, Incoronato…” . Tanti davvero, accomunati da una sorte cattiva divisero solitudine e fame, punizioni e sogni. La vita al Serraglio cambiò con l’arrivo di Menna, il Commendatore, come lo chiamavano tutti, vietò le punizioni corporali e umanizzò la vita dei ragazzi. Diventato adulto Orazio lascia finalmente il Serraglio e si guarda intorno in cerca di lavoro. La guerra era finita, c’era in giro la voglia di ricominciare, di costruire e ricostruire, eppure per Orazio non c’è spazio. Appena viene fuori che ha imparato il mestiere al Serraglio tutte le porte gli si chiudono in faccia. Un serragliuolo non era persona di cui ci si potesse fidare e, come se non bastasse, lui stava a San Giovanniello. Matura in Orazio la coscienza sociale e politica. La giovinezza grama, la speranza del riscatto, il sogno di un mondo più uguale e più giusto per tutti, la voglia di impegnarsi perché quel sogno si realizzi lo portano ad iscriversi al P.C.I., a lavorare e combattere fianco a fianco con Feliciano Granata, Pietro Ingrao, Vasco Pratolini, Tommaso Biamonte, Ninì Di Marino, Giovanni Perrotta, Pietro Amendola, Emilio Sparano, Riccardo Romano, Cecchino, Diego e Peppino Cacciatore, Vincenzo De Luca. La militanza comunista, naturalmente, contribuì a non fargli trovare lavoro. Insomma, per lavorare Orazio dovette tornare al Serraglio e cominciò il suo sofferto rapporto di odio-amore con Menna, rapporto che si protrasse per anni. “Il Commendatore mi chiamò: “Dimmi quello che vuoi; io faccio le carte false, ma tu da qua te ne devi andare. Feci subito la mia proposta: una macchina per tipografia, caratteri di stampa, soldi e commesse con pagamento in contanti. Menna disse sì a tutto”. E di qui da una semplice pedalina la Fondazione delle Arti Grafiche Boccia, un’azienda che opera attualmente per i principali editori europei e che l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha definito come “l’immagine di un Mezzogiorno capace di far emergere e valorizzare le sue migliori energie, concorrendo con il proprio fattivo apporto allo sviluppo dell’Italia intera”, creando quel piccolo impero nel mondo dell’industria grafica che conosciamo. La generazione dei Serragliuoli ante-guerra, quale è quella dei Boccia e di grandissimi musicisti quali Francesco Florio che si è sacrificato per dare alla sua città la prima cattedra d’insegnamento nazionale di sassofono, è uno solo ci vuole “fame” per raggiungere la fama, andando sempre oltre se stessi, inseguendo quel profumo del rischio e dell’azzardo che rende memorabile l’ottenimento di un traguardo, una ripartenza, la vita stessa.

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