di Michelangelo Russo
Sapevo già che la pubblicazione di un articolo sul trentennale di Tangentopoli a Salerno sarebbe stata una provocazione per scuotere un minimo dal torpore il dibattito politico cittadino inzuccherato fin troppo dagli struffoli e dalle zeppole di Natale. E qualcuno, come pensavo, ha abboccato all’amo della provocazione dandomi l’occasione che cercavo per parlare di Progettopoli Salernitana partendo dalla lezione tecnico giuridica dei processi di trenta anni fa; più che mai attuale per i tanti giovani magistrati che non sanno quasi nulla della storia giudiziaria di quegli anni, rimasta un esempio di impegno democratico e civile di quei giudici salernitani che credettero a una città e a un territorio diversamente possibili. Dunque, rispondo a chi, abboccando all’amo, dicevo, ha vituperato quell’epoca e quegli impegni scagliandosi innanzitutto verso la mia persona (elevandomi immeritatamente al rango di protagonista), e poi bollando gli impianti dell’accusa in quei processi come frutto di una pura invenzione, quella relativa, cioè, alla falsa esecutività dei progetti. Esecutività che invece, a detta dell’illustre autore della critica, era piena e presente, come un dibattito pubblico potrebbe dimostrare in ogni momento. Quindi falsari i giudici (tra cui chi scrive) e non falsi i progetti. E va bene! Purtroppo, il dibattito sarebbe inutile perché la falsità di quei progetti fu sancita da due sentenze definitive della Cassazione (l’ultima, il Trincerone, nel 2003, che si chiuse con la declaratoria di prescrizione, e non di assoluzione. Fa un’opera di mistificazione chi dichiara che il Sindaco Giordano, la Giunta e i progettisti ebbero l’assoluzione piena. Non è vero! Accettarono la prescrizione, che è un’altra cosa!). Ma la riesumazione, voluta dal mio articolo, di fatti così antichi (che i soliti noti non vogliono accettare nella loro verità storica) aveva un obiettivo più importante. Ricordare ai nuovi magistrati giovani la capacità di osservazione della realtà che sviluppò la mia generazione, ormai pensionata. Volevo esortare chi cura la formazione professionale di questi giovani (c’è almeno un referente per la formazione in ogni Distretto di Corte di Appello) ad attuare la rivisitazione delle esperienze passate della magistratura sul territorio per trarne insegnamento, anche critico eventualmente, da quelle impostazioni tecnico-investigative. Dico questo perché i magistrati del 1990 guardarono la realtà che li circondava con sguardi avvezzi all’analisi dei fatti attraverso le lenti di una cultura impreziosita da anni e anni di dibattiti sulle dinamiche sociali all’interno della stessa Associazione Magistrati. C’erano stati innumerevoli convegni delle correnti dell’Associazione (in primis Magistratura Democratica) con i cittadini, la gente comune, gli studenti, gli operai (noi di Magistratura Democratica negli anni ’80 entravamo nelle fabbriche!). Insomma, i giudici del tempo di Tangentopoli vivevano e crescevano in mezzo alla realtà, dalla quale traevano spunto e intelligenza per porsi quesiti sul perché delle cose. I magistrati del 1992 si chiedevano, come accadde, come fosse possibile un’esplosione improvvisa di opere faraoniche progettate a tempo di record e per importi folli di denaro. E si chiesero dove stesse il tallone di Achille di quel frutto avvelenato di uno sviluppo senza limiti, al di là spesso della ragione. I magistrati del 1992 videro cose invisibili dal chiuso delle stanze di ufficio a celebrare la liturgia processuale, nel segno e nel sogno di un’indipendenza e terzietà di un’asettica giustizia puramente processuale e non sostanziale e condivisa. Bravi ragazzi, questi colleghi giovani. Hanno un bagaglio di nozioni giuridiche da fare invidia ai vecchi giudici come me. Ma c’è qualcosa che, in tanta scienza, forse ancora gli difetta. La curiosità! L’iniziativa! Lo sdegno civico per le malefatte che toccano la collettività. Furono doti che al nostro tempo ci conquistammo con fatica e senza maestri che ci insegnassero la strada per l’Utopia. Quella strada la conoscevamo; è la direzione ce la indicavano i cartelli degli articoli della Costituzione.