Giovanni Terranova
Il Cilento, terra di paesaggi selvaggi e coste frastagliate, custodisce tra le sue pieghe una storia millenaria intrisa di fede e cultura, così come il Vallo di Teggiano. Entrambe le aree sono state profondamente segnate dalla penetrazione dei monaci basiliani. Questi anacoreti e cenobiti, fuggiti da persecuzioni e invasioni, trovarono in questo angolo della Campania un rifugio ideale, trasformandolo in un faro di spiritualità e un crocevia di civiltà tra Oriente e Occidente. La presenza dei monaci di rito greco, ispirati dalla Regola di San Basilio Magno, si intensificò a partire dal VI secolo. Le prime ondate furono probabilmente costituite da individui o piccoli gruppi in fuga dalle guerre greco-gotiche e dalle prime incursioni longobarde. Tuttavia, il flusso divenne significativo e costante tra l’VIII e il IX secolo, a causa delle violente persecuzioni iconoclaste nell’Impero Bizantino. Monaci e fedeli, strenui difensori delle icone, cercarono scampo nelle regioni meridionali dell’Italia ancora sotto il controllo bizantino, come il Cilento, che offriva luoghi isolati e impervi, perfetti per la vita eremitica e la fondazione di piccole comunità monastiche. A questo si aggiunsero, tra il IX e l’XI secolo, le incursioni saracene, che spinsero ulteriormente popolazioni e monaci dalle coste all’entroterra montuoso, favorendo la nascita e il consolidamento di centri monastici in aree come il Monte Bulgheria, il Monte Stella e il Monte Gelbison (Monte Sacro). Questi monasteri, come il Cenobio di San Giovanni Battista a San Giovanni a Piro o quello di Santa Maria de Pactano a Pattano, divennero non solo centri di preghiera, ma veri e propri poli di sviluppo agricolo, economico e culturale. A essi si aggiunsero molti altri luoghi o grotte, usati dai monaci per professare la loro fede e come punto di supporto ed esempio per la popolazione. I monaci, oltre a bonificare e coltivare la terra, erano custodi di manoscritti, copisti e promotori della cultura greca. Nonostante la latinizzazione progressiva, iniziata con la dominazione normanna e proseguita nei secoli successivi, che portò alla conversione al rito latino o alla soppressione di molti monasteri, l’eredità basiliana nel Cilento e nel Vallo di Diano è ancora palpabile e multiforme. Molti sono i nomi di luoghi, paesi e montagne che conservano un’eco della presenza greca. Pensiamo a “Celle di Bulgheria”, chiaro riferimento alle “celle” monastiche, o a “San Giovanni a Piro”, che alcuni collegano a “Epiro”, indicando la provenienza dei monaci. Inoltre, non vanno dimenticati altri luoghi di culto come la chiesa di Santa Maria dei Greci di Polla e quella di Caggiano. Sebbene molti edifici siano stati rimaneggiati nel corso dei secoli, è ancora possibile individuare tracce di architettura bizantina in alcune chiese rupestri o nelle strutture più antiche di alcuni complessi monastici. Ancora oggi alcuni culti e tradizioni popolari, pur se inglobati nella devozione latina, mantengono radici nel periodo bizantino. La stessa figura di San Nilo da Rossano, che fu tonsurato monaco a San Mauro la Bruca, rimane un punto di riferimento fondamentale per il monachesimo italo-greco e un simbolo della spiritualità bizantina nel Sud Italia. I monaci basiliani, come tutti i monaci di rito orientale, veneravano profondamente i Padri del Deserto come modelli di vita ascetica. Le loro vite e i loro insegnamenti erano centrali nella formazione e nella spiritualità monastica. È quindi altamente probabile che i monaci basiliani nel Cilento portassero con sé il culto di questi Santi, inclusa la figura di Sant’Arsenio il Grande. Sant’Arsenio il Grande (350 ca. – 450 ca. d.C.) fu un celebre Padre del Deserto, un eremita egiziano vissuto nel IV e V secolo, quindi ben prima dell’apice della penetrazione basiliana nel Cilento (IX-XI secolo) e delle persecuzioni iconoclaste. Le sue massime di saggezza e la sua vita ascetica, documentate negli Apoftegmi dei Padri del Deserto, ebbero un’enorme risonanza in tutto il mondo cristiano, influenzando profondamente il monachesimo orientale e occidentale. Il collegamento più diretto, dunque, non è con la sua presenza fisica nel Cilento, che è anacronistica, ma con la venerazione del santo e la sua influenza spirituale. Nel Vallo di Diano, il comune di Sant’Arsenio, il cui insediamento attuale è denominato “il Serrone”, è tradizionalmente collegato a un cenobio di monaci basiliani. È plausibile che questi monaci, arrivati da Oriente, abbiano dedicato il loro insediamento o una chiesa al venerato Padre del Deserto, Sant’Arsenio il Grande, come segno di devozione e continuità con la loro tradizione spirituale. Questo toponimo è una chiara testimonianza dell’influenza del monachesimo orientale e della venerazione di santi come Arsenio. La figura di Sant’Arsenio, come archetipo dell’eremita saggio e silenzioso, ha probabilmente ispirato molti monaci cilentani. Le sue massime sulla solitudine e sulla preghiera silenziosa risuonavano con la vita che molti di loro conducevano nelle grotte e nelle aree remote del Cilento. Non è raro trovare in affreschi o icone di origine bizantina o italo-greca rappresentazioni di Padri del Deserto. Sant’Arsenio il Grande non fu un monaco che visse nel Cilento, ma il suo nome e la sua eredità spirituale furono portati e venerati dai monaci basiliani che colonizzarono religiosamente e culturalmente questa regione. La presenza del toponimo Sant’Arsenio attesta direttamente il contatto con la cultura greca e fa di questo un ponte tra il deserto egiziano e le montagne del Cilento, testimonianza di come la fede e la cultura bizantina abbiano plasmato un angolo così suggestivo dell’Italia meridionale.





