Marco Falvella: Perdonato Marini ma non dimentichiamo - Le Cronache
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Marco Falvella: Perdonato Marini ma non dimentichiamo

Marco Falvella: Perdonato Marini ma non dimentichiamo

di Erika Noschese

E’ il 7 luglio 1972: Carlo Falvella è un giovane studente universitario, iscritto alla facoltà di Filosofia, membro dell’organizzazione universitaria del Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale verso le 19.30 è sul lungomare Trieste insieme all’amico Giovanni Alfinito: un primo diverbio con il trentatreenne Giovanni Marini e con il suo amico Gennaro Scariati, entrambi aderenti ai gruppi anarchici, con cui si erano casualmente incrociati. Viene ucciso per mano di Marini. Sono trascorsi ormai 50 anni. Una storia che spesso si tende a dimenticare, al di là delle bandiere e dei colori politici. Una storia che porta avanti Marco Falvella, suo fratello. All’epoca dei fatti aveva solo 15 anni: “Il giorno dell’omicidio ero ad Avezzano perché mio padre era preside di commissione all’istituto superiore; la sera verso le 22 circa venne mio fratello a casa, ci racconta che Carlo era ricoverato dopo aver mangiato delle cozze. Arrivammo a Salerno alle 6 del mattino del giorno dopo e mio fratello era steso sul marmo”, racconta Marco che ricorda lucidamente quel giorno che ha cambiato per sempre la vita della sua famiglia e quella della famiglia Marini. Marco, il prossimo 7 luglio il cinquantesimo anniversario della morte di Carlo Falvella. Per l’occasione si terrà una cerimonia al Comune di Salerno, con esponenti di destra e di sinistra… “Sì, in effetti ho chiesto l’autorizzazione per il salone dei Marmi di Palazzo di Città, essendo il cinquantesimo anniversario della morte di Carlo; ho ritenuto fare una cerimonia un po’ diversa dal solito, almeno per quanto riguarda la mattinata mentre nel pomeriggio ci saranno i giovani di CasaPound che ricorderanno, come fanno ormai da trent’anni davanti al monumento a lui dedicato. Come presidente dell’associazione internazionale Vittime del Terrorismo, Aivit – che ci vede impegnati da quindici anni nel riconoscimento di quella che è la memoria di tanti giovani assassinati, chi per una ragione e chi per l’altra perché detesto collocare i giovani per colore politico – e ho voluto farlo in modo particolare perché sono anni che portiamo avanti il messaggio di pacificazione, di condivisione della memoria e lo facciamo in unione con tanti altri familiari delle vittime, sia di destra che di sinistra. Quest’anno ho voluto dare un punto ulteriore a questo nostro messaggio, invitando tanti giovani che – come mio fratello – negli anni ‘70 frequentavano la parte sinistra della politica; ci saranno alcuni di loro che daranno una testimonianza su ciò che sono stati gli anni di Piombo a Salerno”. C’è stato, di recente, un attacco da parte dell’Anpi e di Memoria in Movimento… “Mi è stato inviata questa nota dell’Anpi e di Memoria in Movimento. Ho chiamato il presidente Angelo Orientale con il quale c’è stato uno scambio di idee, pur non condividendole, in maniera tranquilla; c’è stata una conversazione tra di noi, l’ho invitato a partecipare a questa cerimonia ma chiaramente mi ha detto di no, non importano le motivazioni ma io gli ho semplicemente chiesto il perché di quell’atteggiamento nei confronti di un giovane ammazzato. In questi momenti, i disaccordi tra associazioni, le contrapposizioni politiche e così via, non dovrebbero manifestarsi negativamente bensì far emergere una loro volontà di pacificazione, ricollocazione sociale nel mondo giovanile; purtroppo, qualcuno non è d’accordo, non amo le critiche e gli attacchi: ognuno vede la vita come vuole, la conduce nel modo più opportuno ma chi sono io per giudicare se è giusta o sbagliata”. E’ il 7 luglio del 1972, cinquant’anni or sono, cosa ricorda di quel giorno? “Ringrazio per questa domanda perché purtroppo spesso si dimentica che dietro una vittima c’è sempre una famiglia, esattamente come dietro un assassino; chi più chi meno ha vissuto dei traumi e dei drammi post evento. Il giorno dell’omicidio ero ad Avezzano perché mio padre era preside di commissione all’istituto superiore; la sera verso le 22 circa venne mio fratello a casa, restammo tutti perplessi della visita di mio fratello Franco e di un suo amico. Mia madre chiese spiegazioni, ci disse che Carlo era ricoverato in ospedale dopo aver mangiato cozze andate a male e, senza aspettare neanche un secondo, preparammo le valigie per far ritorno a Salerno; durante il tragitto, Franco cercò di addolcire la pillola, mia mamma chiese spiegazioni sulle cozze e mio fratello cercò di ammorbidire la situazione, dicendo che c’era stata una questione e dopo un litigio era stato ferito. Questo durante tutto il viaggio fino a che non arrivammo alle 6 del mattino dinanzi la sala mortuaria dell’ospedale di via Vernieri: una persona ci fece entrare e c’era mio fratello, steso su un tavolo di marmo, aveva un lenzuolo che lo copriva fino al collo. Non racconterò della reazione dei miei genitori, io rimasi a fissare gli occhi di mio fratello, nella speranza che li riaprisse o dicesse qualcosa; con noi c’era Enzo, amico di mio fratello Franco, che cercò di portarmi via con forza dal corpo di mio fratello Carlo e tornammo a casa. I giorni, mesi e decenni successivi sono stati un dramma: mia madre per cominciare a metabolizzare la tragedia ha impiegato circa 10 anni; mi ricordo che mia madre usciva alle 8.30 la mattina, andava al cimitero e i custodi – all’orario di chiusura – la cacciavano garbatamente fuori perché lei non voleva andare via; tornava a casa e si chiudeva nella camera di Carlo dove piangeva e pregava. La mia era una famiglia allegra, felice, in armonia, eravamo una famiglia che ha vissuto i suoi sogni ma tutto si è spezzato quel 7 luglio del ‘72; siamo cresciuti come orfani di madre”. Come si fa a spiegare la morte di un fratello, di un figlio, in nome di una ideologia. Come si fa a spiegarlo alla generazione di oggi che non conosce valori né ideali… “Noi non abbiamo perso parte di quella storia, noi abbiamo perso totalmente quella storia che oggi non è neanche nei meandri della memoria dei nostri giovani. Non si può parlare di valori o di ideali: è la politica, in primis, che non sa insegnare i valori e gli ideali ai giovani che intraprendono un cammino politico. Spesso mio figlio Michele, 38 anni, mi dice che avrebbe voluto vivere quegli anni, anche solo un mese: sono stati anni bellissimi ma io dico sempre che i giovani dovrebbero conoscere quegli anni storicamente, intellettualmente, culturalmente parlando. Un giorno ero ad un convegno organizzato dalla mia associazione alla facoltà di giurisprudenza, a Fisciano: c’erano i familiari delle vittime, Franco Esposito (direttore di Telecolore ndr), personaggi della cultura e uno dei relatori domandò ad un giovane universitario chi fosse Aldo Moro e lui rispose che era il capo delle Brigate Rosse. Ho scritto un libro “Dalle Brigate rosse alle Twin Towers” e sarà presentato in tutte le regioni insieme a Gianpaolo Mattei, fratello di Stefano e Virgilio morti nel rogo di Primavalle, perché vogliamo cercare di inculcare, nella scarsa e innocente pseudo culturale in materia, il concetto di insegnamento nei confronti dei giovani: oggi abbiamo uno strumento, la storia, e noi dobbiamo far capire cos’è la violenza, dove porta e lo vediamo oggi con la baby gang. Credo sia fondamentale istruire i giovani al concetto di violenza, di ideologia e le sue conseguenze. Mi sono confrontato con le famiglie di giovani di sinistra, pensavano di essere tutelati ma così non è stato e parlo di Soccorso Rosso, organizzazione all’interno della quale c’era Dario Fo, Franca Rama e tanti altri. Erano, a mio avviso, persone che strumentalizzavano la sensibilità di alcuni giovani e li inducevano a fare cose non giuste. Sarebbe bello se si potesse fare qualcosa affinché si torni ad onorare la politica, i valori, gli ideali e oggi non accade. Non ho molta stima della politica di oggi, disinteressata ai problemi del Paese”. Ha davvero perdonato la famiglia dell’assassino? “Certamente, l’ho fatto io e l’ha fatto mia madre. Abbiamo perdonato anche l’assassino; ho sbagliato nei confronti di Giovanni Marini e me ne pento: ero giovane, in preda alla disperazione anche nel vedere mia madre in quello stato e un giorno, incontrandolo per strada, lo picchiai. Me ne sono pentito, so che la famiglia Marini ha sofferto per il disonore di questo figlio, non dobbiamo trasmettere l’odio verso una persona, forse non è stato lui ad ammazzare mio fratello ma qualche persona molto più in alto di lui. Mi è dispiaciuto che Giovanni Marini e Francesco Mastrogiovanni abbiano fatto una brutta fine: Giovanni è morto nella sua totale povertà d’animo ed economica, abbandonata mentre Francesco morto su un letto, soggetto sottoposto a Tso. Non hanno condotto una vita felice, bella, tranquilli. Marini chiamava spesso mia madre, un giorno riuscì a parlare con lei e le chiese perdono e così fu”.