In un teatro Verdi non certamente sold out, al quale ci ha abituato il Maestro Antonio Marzullo, abbiamo vissuto domenica sera, il secondo titolo della stagione lirica, Manon Lescaut, un titolo di non facile lettura e tessitura, con quel suo “dolcissimo soffrir” in cui Puccini ha impastato uno scintillio che ha bisogno di nervi tesi per essere interpretato, perché non sia restituito come semplice vapore di galanteria. Puccini simula la galanteria: simula cioè, un immaginario Settecento che non ha alcuna consistenza realistica, seppure sembrerebbe averla, in particolare in qualche passo del secondo atto, ma si tratta di altro. Puccini aveva in mente un fuoco sensuale da sfiorare con delicatezza estrema: quei brucianti assedi del corpo che la giovinezza subisce e vive con allegrezza patetica, ma anche con stordimento, con cecità. E’ la sensualità dove c’è tutto con indifferenza, il male e il bene, l’avventura e la verità della passione, la morsa feroce della carne e la gioia di abbandonarvisi come al ristoro dell’acqua di mare. Manon Lescaut è, forse, l’opera di Puccini dove il destino della musica italiana dell’Ottocento viene incenerito tutto intero, e viene presagito un futuro che altre pagine memorabili, da Bohème a Turandot, avrebbero via via decantato. Se Renzo Giacchieri è riuscito a rendere con pochi elementi, trovati nel nostro teatro, venuto meno il progetto di riprendere le scene della prima rappresentazione romana con le scene di Camillo Parravicini – le più longeve del melodramma italiano che debuttarono, nel 1930, che sempre a Roma hanno tenuto banco fino agli anni Settanta, scene dipinte, come si usava una volta, scene leggere, solitamente di ambientazione naturalistica che inducono lo spettatore a concentrare l’attenzione sui protagonisti – a “legare” quattro quadri totalmente differenti, l’osteria del primo atto, l’alcova del secondo, il porto del terzo e il deserto del quarto, con proprio l’infertile, arida, “gelida” sabbia a fare da leitmotive scenografico, simbolo della parte oscura della vita affettiva di Manon, nonostante l’imperdonabile mezzo stivaletto “incoccardato” di Geronte, al posto della scarpa con fibbia e tacco di prammatica, il cast dei cantanti, questa volta non è stato all’altezza della partitura. La brutta sorpresa l’ha riservata proprio il tenore Renzo Zulian, Roberto des Grieux, un ruolo che si è rivelato inadatto a lui per tecnica, estensione vocale, pecche d’intonazione nel registro medio acuto e recitazione. Des Grieux è uno “jugendlicher Heldentenor” che ha da fare ingrate acrobazie sulle corde vocali, che ha da tentare gli impervi atletismi di Manrico, ma ha da sembrare anche un fine dicitore obbligato a distendere l’ugola sul pentagramma. Certamente meglio Manon, Norma Fantini, alla quale è però mancato il mistero e il cambiamento di “maschera” da ingenua sedicente a sofisticata viveuse, ma che allo stesso tempo non deve mai adagiarsi al cliché della scaltra ammaliatrice presente nell’originario romanzo settecentesco di Prevost, coinvolgendo la sua voce in un’altalena frenetica tra lirico e drammatico, con echi da canzonettista invasata o stremata dalle febbri. La Fantini ha pur mostrato capacità di resistenza – resta infatti in scena fino al termine – e di qualche “numero”, ma quasi totalmente assente la ”presenza” acustica, nei sussurrati lamenti a fior di labbra, come il gioco psicologico “In quelle trine morbide”. La direzione artistica del nostro massimo sembra avere la mano felice con i baritoni: Ionut Pascu con la sua voce ricca di colori, la nitida pronuncia e una sufficiente intonazione ha schizzato un Lescaut di buona fattura, riuscendo ad evocare anche la sua morbosità, quasi incestuosa, nei confronti di Manon. Dopo un primo atto da dimenticare, ove coro, orchestra e cantanti si sono rincorsi, senza quasi mai ricongiungersi, causa totale black-out buca-palcoscenico, nel secondo atto l’orchestra ha cominciato la sua decisa ascesa, anche se il direttore Roberto Paternostro, non è riuscito a realizzare l’originario pucciniano disegno lussuoso alla testa di una formazione che ha da essere duttilissima e attenta, per esprimere e comunicare all’uditorio lo stupore, la tragica atrocità, quel decadentismo europeo che è nelle vene di quest’opera. Se il maestro non ha tradito la disperazione che attanaglia sin dal secondo atto i due amanti, la musica di Puccini, in cui hanno messo le mani un po’ tutti dal John Williams di Star Wars al mood di Ennio Morricone, al di là di ogni incertezza esecutiva ha salvato lo spettacolo: l’orchestra trascinata a stento verso tempi larghi e cantabili, la melodia scorciata, strangolata, le corde dei violini sempre sul punto di saltare, il sinistro colore della lama, l’acido stridore, il senso di disintegrazione armonica pur dentro la scrittura tradizionale, le linee del canto erompenti mentre una spugna corre sul pentagramma per cancellare o confonderci ci hanno ammaliato sino a giungere a quel “dolcissimo soffrir” a quel sentimento di sciupata bellezza che è l’imprimatur di Giacomo Puccini. Chiusura con la scena riprodotta pari pari dal manifesto della prima rappresentazione dell’opera al teatro regio di Torino del 1893, che avrebbe avuto senso nell’originale progetto con le scene di Parravicini, e applausi per tutti, escluso per il siparista che ha fallito proprio sul celebrato intermezzo, e in particolare per i giovani della scuola salernitana, a cominciare dal maestro del coro Francesco Aliberti, seguiti dai bravi allievi di Marilena Laurenza, Nicola Cembalo e Sara Savino, e ancora Domenico Menini che ha stregato cuori nel ruolo di Edmondo, Francesco Pittari , Sara Vicinanza, Beatrice Amato, Anna Katarzyna e Rita Santucci. Si replica questa sera e venerdì alle ore 21.
Olga Chieffi