L’OPERA SIAMO NOI - Le Cronache Spettacolo e Cultura
Spettacolo e Cultura Arte Storia Tradizioni Eventi

L’OPERA SIAMO NOI

L’OPERA SIAMO NOI

Alberto Cuomo

Venerdi scorso, a Palma Campania, nella corte del Palazzo Aragonese, l’artista salernitano, Carmine Piro, ha posto una installazione costituita da una scacchiera scomposta, ovvero da caselle quadrate sollevate dal terreno onde accogliere propri dipinti che presentavano in forma diversa gli stessi segni, geometrici o curvilinei. I vari percorsi che si aprivano tra le “case” inducevano un procedere labirintico e due colonne, a propria volta ornate degli stessi segni, si ergevano, come Arianna e Fedra, a direzionare i cammini. L’opera ha indotto la partecipazione delle numerose persone presenti che, introducendosi nei percorsi aperti, sono diventate parte dell’installazione sollecitando l’interrogazione sul rapporto tra il pubblico, i singoli fruitori, e l’arte. Si interroga su tale tema Jacques Derrida, nel saggio del 1978 tradotto in italiano nel 1981 “La verità in pittura”, un testo che polemizza con il filosofo Martin Heidegger e lo storico dell’arte americano, Mayer Schapiro. I due avevano a propria volta polemizzato, alla fine degli anni Sessanta, a proposito di un dipinto di Van Gogh raffigurante un paio di scarpe mal messe e il filosofo aveva appuntato la propria riflessione, nel 1935, nel saggio “L’origine dell’opera d’arte” mettendo in luce come l’opera che le ritrae e, in generale, l’arte, ha il potere di far venire alla luce la verità del mondo che richiama. È noto, a quanti frequentano la filosofia che, per Heidegger, l’essere, ovvero il fondo della nostra interrogazione sullo stare al mondo, riluce negli “inutilizzabili”. Vale a dire che se guardiamo le cose nella loro strumentalità non cogliamo il loro presentarsi a noi quali enti, detto in soldoni, quali depositarie dell’essere, dell’essere al mondo. In genere l’arte non è strumentale e, quando lo è, come nel caso dell’architettura, per cogliere il mondo che la genera, bisogna prescindere dalla sua funzionalità e scorgere l’abitare proprio nel non-risiedere (un tempio greco rivelerebbe tutto il senso della grecità proprio nel non leggerlo quale luogo sacro utilizzabile per sacrifici). Nel caso delle scarpe di Van Gogh è proprio il loro mostrare di essere dismesse, la loro non utilizzabilità, a donarci l’intero mondo contadino di cui fanno parte e cui rinviano, ciò perché ci lasciano assorti a sentirne in esse l’eco. Dal momento ci sono diversi dipinti di Vincent Van Gogh che rappresentano un paio di scarpe (o anche diverse scarpe) Schapiro scriverà a Heidegger chiedendogli quale fosse il dipinto oggetto della sua analisi e, considerando la datazione offerta dal filosofo, il 1886, rileverà che quelle scarpe non fossero affatto contadine dal momento il pittore, in quell’anno, viveva a Parigi e, presumibilmente le scarpe dovevano essere sue. Di qui, anche in ragione della tormentata vita dell’artista, l’idea che egli ponesse nelle sue opere più che l’essere del mondo, al contrario, il suo intimo essere riflesso nelle cose dipinte, sì da riprodurle più volte secondo il proprio stato d’animo. Nel suo saggio Derrida se la ride di entrambi i contendenti mettendo in evidenza come essi abbiano letto nel dipinto proprie personali interpretazioni dell’arte tanto da cadere nel ridicolo, Heidegger, in quanto mette pathos nel leggere, invece che il quadro, immaginarie scarpe reali e Schapiro, per l’ingenuità di ritenere che il firmatario di un’opera sia anche il proprietario di quanto raffigurato. Ma se per Derrida la pastosità dei colori dei dipinti di Van Gogh è una sorta di corpo che richiede un corpo a corpo con l’osservatore, non vale anche per lui il proiettare il proprio pensiero, l’idea cioè che anche il corpo non sia che “traccia”, nell’opera di Van Gogh? Di recente Massimo Cacciari ha pubblicato a sua volta un saggio, scritto in passato, sul pittore olandese sottolineandone l’unicità, la diversità rispetto agli impressionisti cui viene ascritto. Per Cacciari Van Gogh tenta di rivelare l’anima delle cose, il loro tormento di porsi all’attenzione del nostro tormento. Le cose cioè per lui sono vive, esse stesse soggetti con cui entrare in sintonia, o meglio in simpatia. Il lavoro di Piro è sicuramente del tutto differente da quello di Van Gogh e si pone all’incrocio di diverse tendenze contemporanee, tra la land-art, l’arte comportamentale, l’astrattismo, e però anche esso promuove il confronto vivo tra il soggetto, l’autore, il pubblico, e l’oggetto, sollecita cioè la corrente di energia che vi è fra gli esseri e con il mondo, sì da farci identificare in fine con l’opera.