di Vito Pinto
A partire da sabato 18 novembre prossimo e sino al successivo 17 dicembre, i prestigiosi spazi di Palazzo Fruscione ospiteranno la mostra “Lo specchio ibrido” materiali d’archivio dal 1973 al 2023 che Antonio Baglivo ha realizzato in quel cammino lungo cinquant’anni durante i quali ha costruito una vita d’arte intensa, ricca di produzioni spesso maturate nel silenzio di “anni d’esilio” dove il pensiero è più fluido, più vicino all’intimo umano, alle sensibilità dell’artista che lo sa cogliere e tradurre in quei linguaggi capaci di trasmettere emozioni, riflessioni… meditazioni. E sono tessere di un grande mosaico, senza spazio e senza tempo, che l’uomo-artista ha costruito nel silenzio di una stanza-antro di riflessioni e lavoro, per parlare ad altri uomini sottovoce… dote rara di uomini forse in via di estinzione, che fa, però, parte del carattere di Antonio Baglivo. In questo mondo di vuote parole, falsi sorrisi, storie violente, inganni politici e sociali, sembra non esserci più spazio per la cultura della riflessione, delle idee, del rapporto tra simili; ecco che i lavori d’arte di mezzo secolo, i Segni (e i Sogni) di Antonio Baglivo si pongono, ancora una volta, come aiuto a riprendere il cammino.
Abbraccia, lo sguardo, il viaggio dell’artista cilentano (da tempo bellizziano di adozione) messo in esposizione per un appuntamento importante e ci si accorge, opera dopo opera, che il tutto è un diario di viaggio che non ha mai fine, un carnet d’âme, dettato da un profondo bisogno di tracciare attimi d’esistenza: “appunti” di un altro tempo traslato nel contemporaneo, attualizzato, di volta in volta, ad una giustamente diversa società; un linguaggio antico reso moderno da Baglivo, un linguaggio che rimanda la memoria alla purezza delle incisioni rupestri tracciate dai Camuni o alla complessità ideografica adoperata dagli egizi per lasciare un messaggio visivo della loro magnificenza: una prerogativa ad esclusivo appannaggio di quegli artisti che sanno raccontare la propria arte con alfabeti di segni.
Si entra, così, in un mondo da Codice Inverso, in un “Enigma”, definito da Cristina Tafuri “indizi per un alfabeto personale” o, per rifarsi a Bruno Munari e al suo “Codice ovvio”, lavori dove «non si hanno parole da leggere, ma una storia visiva che si può capire seguendo il filo del discorso visivo». Una scrittura che ha un ben preciso itinerario stilistico anche se il suo personale alfabeto diventa ogni volta una sfida a leggere, capire quel “qualcosa” che è dietro ogni opera-colloquio che l’artista instaura con il fruitore del suo lavoro.
Nella sua stanza di pensieri che si trasforma, di volta in volta, in laboratorio, Baglivo si fa artigiano nel rendere l’idea, la sua idea, visibile, percepibile dal fruitore. Ed è, giocoforza, il meditare silenzioso di chi guarda, osserva il messaggio intrinseco, anche se per certi versi segreto, che l’artista ha racchiuso nelle sue opere.
E’ una esposizione “audace” quest’antologica per i cinquant’anni d’arte, una provocazione oltre gli schemi che Baglivo lanciò già nel 1977 dagli spazi decisamente stretti, ma intimamente ampi del Laboratorio “Dadodue”, da lui inventato quale luogo d’incontri “fuori dalle logiche mercantili delle gallerie, – scriveva l’allora giovane artista dalla elegante vena provocatrice – delle riviste specializzate, dei critici prezzolati, scegliendo come campo privilegiato di interventi il margine, la periferia”. E fu lo spazio per giovani e bravi artisti, che non trovavano spazi per le loro opere, che si sono, poi, creata una loro personalità.
Sono passati alcuni anni, forse decenni da quando Baglivo realizzò altre mostre di provocanti riflessioni: “Atlantide” come metafora della coscienza, le sculture in legno de “Il deserto prossimo”, il ciclo delle “Carte nere per Ovidio Nasone”. Quindi “Katakatascia”, “Notturni Tursitani” e “Teca Mundi”, un «intrecciarsi di segni e di parole – ricordava il compianto poeta Gerardo Pedicini nella postfazione di quest’ultima – che chiedono una risposta, ma questa resta sempre sospesa: ora a favore dell’immagine, ora a vantaggio del testo», aggiungendo che tutto è molto simile al suggestivo immaginario combinatorio de “Le città invisibili”di Italo Calvino. E ancora “Nostoi” il ritorno, secondo il vocabolario greco, riferentesi a quei poemi epici dei Greci reduci da Troia sino alla mostra al “Civico 23” dove Baglivo si presenta con opere realizzate con carta in sobrietà compositiva per un mondo lontano, ma al quale siamo abituati ormai da tempo: la dirimpettaia Africa sbarcata sulle nostre coste con i dolori e le sofferenze dei suoi tanti “diversamente bianchi”.
Una mostra, quella attuale, di circa cento opere selezionate tra pitture, sculture, tecniche miste, calcografie e libri d’artista scelti e ordinati per cicli di lavoro, alcuni dei quali non ancora esauriti.
E ancora in questo viaggio vi è la poesia visiva e le sue diverse declinazioni, dove l’artista ha creato opere per un personale percorso. Tra l’altro a Salerno è stato uno dei pochi, se non l’unico, nei primi anni Settanta, a produrre lavori legati al filone della Narrative Art.
Su tutto, spesso, nei lavori di Baglivo compare “l’estraneo inseparabile da me” – ricorda il maestro – quel rinoceronte a cui spesso fa riferimento come duplicazione di una natura caratteriale…
Richiamando alla mente la particolarità dei suoi “ibridi libri” viene spontaneo rileggere quanto Francesco D’Episcopo scrisse del maestro definendolo “ibrido Baglivo” dove quell’ibrido, in realtà, consente «la estrema fruibilità di materiali diversi che, liberati da restrittivi convenzionalismi, hanno finalmente la possibilità di scorrere liberamente, di contaminarsi, congiungersi, sostituirsi, soccorrersi, per dare una forma mai definitiva alla ricerca artistica, che recupera così quello spazio illimitato di invenzione che resta la sua più autentica prerogativa».
Ma la ricerca d’arte di Antonio Baglivo non è ancora esaurita e l’anima, il cuore evoca la parola “metamorfosi”. Prosegue, così, il viaggio dell’artista alla ricerca dell’isola che non c’è, che Guido Gambone immaginò in un ampio piatto di doccia dove l’acqua scorre su un indistruttibile disegno ceramico.