
Mario Mele
Nel giorno della sua intronizzazione, Papa Leone XIV ha pronunciato parole destinate a lasciare un segno:
“Sono stato scelto senza alcun merito, e con timore e tremore vengo a voi come un fratello che vuole farsi servo della vostra fede e della vostra gioia”.In una società dominata dall’etica della performance e da una narrazione meritocratica che permea ogni ambito – dalla scuola al lavoro, dalla politica al linguaggio istituzionale – questa affermazione suona come un atto radicale, quasi eversivo. Non è solo un gesto di umiltà spirituale: è anche un posizionamento culturale, una presa di distanza dalle ideologie dominanti del nostro tempo.
“Sono stato scelto senza alcun merito, e con timore e tremore vengo a voi come un fratello che vuole farsi servo della vostra fede e della vostra gioia”.In una società dominata dall’etica della performance e da una narrazione meritocratica che permea ogni ambito – dalla scuola al lavoro, dalla politica al linguaggio istituzionale – questa affermazione suona come un atto radicale, quasi eversivo. Non è solo un gesto di umiltà spirituale: è anche un posizionamento culturale, una presa di distanza dalle ideologie dominanti del nostro tempo.
La meritocrazia come mito moderno
Il concetto di meritocrazia è oggi uno dei più diffusi mantra della nostra epoca, spesso associato all’idea di giustizia e progresso. Ma in realtà, la meritocrazia è tutt’altro che neutra: è una costruzione ideologica che, sotto una patina di equità, finisce per giustificare le disuguaglianze. Mauro Boarelli, nel suo saggio Contro l’ideologia del merito, mostra come l’elogio del merito serva a nascondere privilegi già esistenti, trasformandoli in apparenti conquiste individuali. In altre parole: non si premia chi merita, ma chi può permettersi di apparire meritevole.A rafforzare questa critica si aggiunge il lavoro di Carlo Barone, che ne Le trappole della meritocrazia analizza il funzionamento reale dei sistemi educativi, dove la “valutazione meritocratica” finisce per penalizzare proprio chi avrebbe più bisogno di supporto. La scuola diventa così un luogo di riproduzione delle gerarchie sociali, anziché un motore di emancipazione. Ma il problema è ancora più profondo. Se si mette in discussione la stessa idea di libertà individuale come fondamento della responsabilità morale, che senso ha parlare di merito? Daniel Dennett e Gregg Caruso, nel provocatorio A ognuno quel che si merita, affrontano questo nodo filosofico con rigore: se il libero arbitrio è illusorio, se le nostre scelte sono il risultato di condizioni biologiche, ambientali, storiche, allora anche il merito personale perde consistenza. Giustizia, allora, non può più significare distribuire premi e castighi in base ai risultati, ma trovare forme più giuste di distribuzione delle opportunità. Un ulteriore contributo illuminante arriva dallo studio di Rapisarda, Pluchino e Biondo, autori del libro Talento e fortuna. Gli ingredienti del successo.: attraverso simulazioni statistiche e modelli di distribuzione del successo nella società, mostrano che il talento, da solo, raramente è sufficiente a determinare l’esito di una carriera o di una vita. A contare in modo decisivo è la fortuna, spesso trascurata nelle retoriche ufficiali. Questo studio ha ispirato anche il mio documentario The Shadow of Meritocracy (2019), disponibile su Amazon Prime, con cui ho cercato di raccontare proprio l’illusione collettiva che accompagna la narrazione del merito come giustificazione delle diseguaglianze. Questa prospettiva è condivisa anche da Roberto Brigati, che ne Il giusto a chi va? invita a rimettere al centro l’etica della cura e del riconoscimento, in opposizione alla logica del premio. La sua è una filosofia del legame, che mette in discussione la separazione tra individuo e contesto, tra capacità e destino sociale.
Una rottura necessaria
È in questa cornice che la frase di Papa Leone XIV assume un significato esplosivo. Lo “scelto senza merito” non è solo un richiamo alla tradizione cristiana della grazia, ma anche un gesto profondamente politico. Un atto di rottura nei confronti di un mondo che valuta tutto – anche l’anima – in base a metriche di efficienza, competenza, produttività. In un’Italia dove un ministero si chiama “dell’Istruzione e del Merito”, e dove l’accesso a diritti fondamentali viene sempre più spesso subordinato alla performance, la scelta del Papa di esordire così diventa una presa di posizione potente: un rifiuto della logica del premio, e un richiamo alla logica del dono. È un’alternativa culturale: non all’idea di responsabilità, ma all’idea che solo chi “vale” meriti ascolto, rispetto, riconoscimento. In questo senso, le parole del Papa possono parlare a credenti e non credenti, religiosi e laici, come appello a costruire una società più giusta, non fondata sulla gara, ma sulla solidarietà. Perché – come ci ricorda Leone XIV – nessuno merita davvero di guidare gli altri, ma tutti possono scegliere di farlo mettendosi al servizio. È forse questa la lezione più profonda: non meritare il potere, ma accoglierlo come responsabilità da condividere.