Michelangelo Russo
L’articolo dell’On.le Giuseppe Gargani apparso ieri ha il merito di focalizzare quesiti importanti, ma ricorrenti, sulla funzione dei Pubblici Ministeri in rapporto con la Politica. L’accusa di violazione del segreto istruttorio a Davigo, vista con goduria dalle schiere di insofferenti per il personaggio, è stata tuttavia l’occasione per l’Onorevole Gargani (rispettosissimo, sia chiaro, verso Piercamillo Davigo) per rispolverare un suo vecchio cavallo di battaglia, sempre lo stesso da tre decenni.
Il male assoluto per la credibilità della giustizia, a suo modo di vedere, dato dai magistrati esibizionisti e protagonisti sotto i riflettori. Quelli cioè che Gargani definisce i giudici “etici” (insomma i bacchettoni clericali della giustizia a oltranza vista quale imperativo morale). Quindi, suggerisce l’autorevole ex Parlamentare della Democrazia Cristiana che fu, il rimedio è l’assoluto silenzio della stampa e dell’informazione sui nomi dei magistrati che curano le inchieste eclatanti. Così nessuno si può pavoneggiare, e colpire il sistema politico pur di apparire.
In verità, il rimedio del segreto assoluto sui nomi degli inquirenti non appare consigliabile e neppure praticabile.
Anzi, l’idea di un’indagine che è per definizione già di per sé occulta perché segreta, ma che è poi anche anonima, cozza con i principi giuridici moderni da Beccaria in poi.
L’indagine occulta e anonima era una prerogativa medioevale delle Corti Vehmiche della Germania profonda del 1400. Nell’inefficienza completa delle corti di giustizia ufficiali, i Tribunali segreti ripulivano le turbolente città tedesche da assassini e malfattori mandati a morte con processi sommari notturni tenuti da giudici senza nome e senza volto, dove anche il difensore era sconosciuto per l’imputato. Che confessava, eccome, soprattutto dopo essere stato rinchiuso nella trappola di ferro arroventata cosiddetta Vergine di Norimberga (una statua a grandezza d’uomo piena di aculei che trafiggevano l’imputato che si agitava mentre l’arrostivano). Ecco, questo è l’esempio storico più illustre di giudici rimasti anonimi!
Perfino la Chiesa, pronta a rimediare alle gaffes storiche dopo gli incidenti con Giordano Bruno e Galileo Galilei, ha lentamente abbandonato il concetto di segretezza in quell’altra forma di celebrazione rituale che è la Santa Messa.
Il Consiglio Vaticano Secondo ha svelato l’anonimato del celebrante, raccolto nel suo dialogo con Dio mostrando le spalle al pubblico dei fedeli, portando il sacerdote al dialogo a viso aperto con il suo gregge, impegnando con la sua faccia la credibilità del messaggio pastorale. Perché, allora, la Giustizia dovrebbe regredire verso l’anonimato? Piercamillo Davigo la sua faccia ce l’ha messa per anni; paga ora il prezzo momentaneo di un cortocircuito che lui stesso ha contribuito ad alimentare con il rigore del suo modo di essere magistrato.
L’uomo è fatto così. Lo conobbi al tempo di Tangentopoli, a Milano, nel maggio del 1993. Fui inviato dai colleghi del mio pool salernitano a prendere contatti con la triade Di Pietro, Colombo, Davigo.
Dopo l’incontro cordialissimo con Dio Pietro, trovai davanti alla porta di Davigo il mio vecchio amico avvocato Salvatore Catalano, difensore del potentissimo ministro democristiano Cirino Pomicino. Entrammo insieme, ma Catalano si nascondeva dietro le mie spalle, timoroso di fulmini in arrivo. E i fulmini gli arrivarono, perché, per fargli una cortesia, gli cedetti la parola. Implacabile, metallico, gelido, Davigo liquidò le istanze difensive con risposte affilate come lame di Toledo. Quanto a me, nemmeno l’ombra di un sorriso per la visita. Quegli occhi grigi e senza apparenti emozioni mi imbarazzarono, e risolsero l’incontro in frasi brevi. Ricordo che non mi accompagnò alla porta nel saluto.
Così si mostrò l’uomo, e così credo che sia stato tutta la vita. Ma il suo esempio ha catturato nel tempo molti ammiratori, soprattutto giovani, tra i magistrati. Ritengo che sia stato uno sbaglio, non di Davigo o dei giovani, ma di quella parte della Magistratura più consapevole dei limiti umani e culturali della Giustizia. Non avremmo dovuto permettere che l’impostazione culturale rigida alla Davigo diventasse, col tempo, prevalente tra le nuove generazioni come una variante Delta del Covid. Avremmo dovuto insistere nel ricordare che non esiste né è concepibile una giustizia “etica”! Il rigore estremo del concetto di giustizia ad oltranza porta all’inevitabile cortocircuito del sistema giuridico per effetto dei temibili spettri dell’iperbole e del paradosso. I concetti estremi, cioè, senza esito possibile al di fuori della fusione nucleare per eccesso di energia cinetica.
Davigo, Greco e il C.S.M è adesso cortocircuito. Gratteri e Lupacchini è cortocircuito. Bruti Liberati e Robledo fu cortocircuito. Palamara e C.S.M è cortocircuito.
Il sistema giustizia, purtroppo per lui, non ha vie di uscita per il rotto della cuffia di fronte alle crisi di sistema teorico e organizzativo. Perché il sistema giustizia è ancora giovane nella storia delle manifestazioni della civiltà umana. Più antichi i sistemi della cultura e della religione, che affrontano iperbole e paradosso con espedienti geniali: la cultura stempera il dramma e la tragedia con la via di fuga della satira comica. E quindi col relativismo delle emozioni. La religione evita iperbole e paradosso con la più ben draconiana risposta costituita dal dogma di fede. Prendere o lasciare! La giustizia portata agli eccessi conduce solo alla follia!