Al via la XIV edizione, che ritorna nella cornice abituale del Salone dei Marmi di Palazzo di Città organizzata da Paolo Francese e Sara Cianciullo. Tre gli appuntamenti a partire dal 18 novembre, con Sandro De Palma, Andreas Frolich e Albert Mamriev
Di Simone Parisi
Non sappiamo se davvero il pianoforte riassuma in sé tutta l’arte universale, come voleva Franz Liszt. Sappiamo e, non è poco, che il pianoforte racchiude la sintesi della musica occidentale, oltre che di una cospicua fetta di quella afroamericana. Ottantotto i tasti, che sono il medium -anche in senso magico/misterico- del viaggio che la musica ha intrapreso in Europa. Il gioco delle voci, secondo le regole della scala temperata e dell’armonia, in cui si risente un percorso che va dal gregoriano alla polifonia cinquecentesca, alle regole di Lully, e Johann Sebastian Bach, fino alla decostruzione melodica, armonica e timbrica del ‘900. La dinamica, nel tocco offre all’oggetto un fascino un po’ selvaggio: “Il pianoforte è un mostro che strilla quando tocchi i suoi denti” diceva Segovia, chitarrista intimorito, dal demone. La mise “da sera” di un gran coda, snella e scura col sorriso d’avorio dei tasti, che raccoglie mondanità e distacco. La casa comunale da oltre un decennio ha deciso di aprire il suo “cuore” a questo strumento, grazie alla visione e al fine sentire musicale dei pianisti Paolo Francese e Sara Cianciullo, i quali insieme ad Ermanno Guerra, hanno donato alla cittadinanza ben tredici edizioni del Piano Solo Festival, e si avviano a varare la XIV, un percorso che ha salutato partecipazioni prestigiose, prime esecuzioni, attenzione alle giovani promesse, incisioni, tra i marmi della storica sala. L’inaugurazione del cartellone, che si avvale dell’esperienza della storica ditta “Alberto Napolitano”, e il supporto promozionale della Scabec, fissata per venerdì 18 novembre alle ore 19, è stata affidata al magistero italiano di uno degli eredi della scuola di Vincenzo Vitale, Sandro De Palma, il quale ha avuto, poi tra i suoi maestri, Nikita Magaloff, Piero Rattalino e Alice Kezeradze-Pogorelich. Al pubblico di Piano Solo dedicherà i Drei Klavierstücke D.946 di Franz Schubert, ove compare marginalmente, l’aspetto Biedermaier dell’opera pianistica di Schubert, cioè il momento del tentativo di un rapporto positivo con la società che lo circonda e che fa dire all’Einstein, che il primo è un pezzo «alla francese», soprattutto a causa della parte centrale, «Romanza nel tipico stile di Kreutzer o di Rode», il secondo «una Cavatina Veneziana un po’ languida, nello stile tipicamente all’italiana», e il terzo è «all’ongarese». A seguire, la Sonata in re minore op. 31 n. 2 (La tempesta) di Ludwig Van Beethoven, Secondo l’ allievo e amico Anton Schindler, quando gli venne chiesto quale fosse il significato di questa Sonata, Beethoven avrebbe risposto: «Leggete La tempesta di Shakespeare», un’ottima risposta, proprio perché è vaga e non è di grande aiuto per chi vuole assolutamente trovare un “significato” extramusicale a questa Sonata. La tonalità è la stessa di quella che Mozart aveva usato nel Concerto per pianoforte e orchestra K 466, una delle sue opere più oscure e demoniache, e che Beethoven impiegò molto raramente, e solo in composizioni di particolare rilevanza, quali questa Sonata e la Nona Sinfonia. Seconda parte della serata interamente dedicata a Fryderyk Chopin, con due notturni op.27, effusione dell’animo priva di qualsivoglia impennata razionale, secondo l’arte, appresa dagli operisti italiani, di cesellare ed abbellire la melodia, tre studi dall’opera 25 pagine chiave nella storia dell’evoluzione del linguaggio pianistico, la difficoltà tecnica e lo sforzo e la fatica necessari al suo superamento diventano manifestazione esteriore di una tensione e una sofferenza interiori, ma al di là della tecnica e del virtuosismo puri, questi pagine si rivelano, anche grazie a diteggiature spesso ardite e sempre originali, straordinari saggi di ricerca sul timbro. Finale con lo Scherzo n.1 in si minore op.20, in cui all’idea di «levità», di gioco e sorriso che, pure, è insita nel termine stesso, il compositore polacco s’abbandona alla réverie dolente o nostalgica o alla fosca visione drammatica. Giovedì 24 novembre, sarà di scena, invece, il magistero tedesco di Andreas Frolich, il quale principierà il suo récital con due Fantasie di Wolfgang Amadeus Mozart, quella in Do Minore KV 475 e quella in re Minore KV 397, così ricche in arditi cromatismi, in reiterati, quanto repentini mutamenti di tonalità, di movimento, di valori espressivi, di cesure e pause inaspettate, di rotture ed elisioni, di estrosi slanci e di drammatiche cadute. Si può dire che queste «Fantasie», graficamente fissate e dunque meditate, almeno nella misura inerente alla loro formulazione per iscritto, appaiono assai più libere, più «improvvisate» delle vere e proprie improvvisazioni estemporanee in cui Mozart eccelleva e che egli stesso non scrisse ma di cui tuttavia ci possiamo fare un’idea attraverso qualche annotazione che ci è pervenuta. Nelle improvvisazioni veramente spontanee, il compositore, trovato un tema, lo volta e lo rivolta da tutte le parti, e non lo abbandona prima di essere certo d’aver avuto un’altra idea da svolgere. Tra le due Fantasie verrà eseguita la Sonata in Fa maggiore KV332, la quarta delle Parigine, in cui si abbandona alle dinamiche del fortepiano. Il movimento d’apertura è proprio una di quelle magiche pagine mozartiane caratterizzata, pur nella sua concisione, da una stupefacente ricchezza di materiale musicale che ad altri sarebbe bastata, forse, per almeno tre primi tempi di sonata. Dopo la delicata e poetica pausa dell’Adagio, la Sonata si conclude gioiosamente con un irresistibile e brillante Assai Allegro. Seguiranno, poi quattro trascrizioni da Johann Sebastian Bach di Wilhelm Kempff, Ferruccio Busoni, Myra Hess e Alexander Siloti, una riflessione suggerita dalle numerose relazioni e influenze che la musica ha avuto nell’opera del compositore tedesco e che Bach ha avuto sulla musica a venire, un percorso affascinante che conferma la statura di questo compositore che in tutte le trasposizioni rimane sempre il sommo Bach. Largo spazio dedicato a Fryderyk Chopin con la Polonaise op. 26 n. 1, il Notturno opera postuma Valse op.34 n.1 e 3, Notturno op.15 n.1, al suo linguaggio musicale, con cui tradusse le sue passioni umane e politiche, il desiderio di libertà per la sua Polonia, la sua malinconia e i propri fantasmi interiori, prima di congedarsi con ancora due trascrizioni, stavolta di Max Reger con due Lieder di Richard Strauss, pagine che evocano a volte quasi Wagner, dai colori ancora più vividi, Allerseelen op.10 n. 8 e Morgen op.27 n. 4. Chiusura del festival giovedì 1 dicembre, con Albert Mamriev, in rappresentanza della grande scuola pianistica russa, il quale dedicherà il concerto a due autori, Ludwig Van Beethoven e Franz Liszt. Il pianista ci calerà nella grande innovazione del tardo sonatismo di Beethoven, che consiste nell’enorme apertura del ventaglio timbrico del pianoforte, con le sonate n°30 op.109 e n°31 op.110. Qui, l’abbandono dell’architettura tematica svincola completamente la scrittura pianistica: a volte questa si diversifica a “zone”, più espanse o contratte in base allo sviluppo musicale, seguendo una sorta di simmetria intima, analogica, “sperimentale”. Altre volte vengono recuperati procedimenti più tradizionali e consacrati come il contrappunto, il fugato o il tema con variazioni, perlopiù, però, rimodernati da una nuova sensibilità sintattica o da un gusto melodico, che sembra già risentire di Schubert e Bellini o presagire Chopin. Soprattutto il procedimento della variazione viene elaborato fino a limiti forse insuperabili. Detto in una formula, Beethoven si lascia alle spalle l’idea di una variazione ornamentale per realizzarne una parametrica. Il tema non viene solo alterato, complicato, infiorettato, ma nientemeno che abbandonato, conservando soltanto una sorta di ossatura funzionale. Chiusura con le celeberrime parafrasi di Franz Liszt da Richard Wagner, dal Parsifal, Feierlicher Marsch, dal Fliegender Holländer, Ballade, dal Tannhäuser, O du mein holder Abendstern, dal Tristan & Isolde, Isoldes Liebestod e dal Rienzi, Santo Spirito Cavaliere. Il loro corpus rappresenta uno dei vertici del pianismo tout court e, come tale, hanno addirittura guadagnato fascino nel tempo. La parafrasi ha numerosi volti e si presenta in modo insistente nel corso del XX secolo, nella misura in cui le idee originali si sono gradualmente inaridite e si è ricorso sempre più spesso alla creazione, per dirla con George Steiner, “secondaria”. Liszt interpreta (nel senso etimologico) il testo e a sua volta l’esecutore deve interpretare la sua interpretazione. È un’operazione al quadrato, che coglierà Richard Wagner attraverso Liszt, ma forse, ancor più, Liszt attraverso Wagner.