Lelio Schiavone e una Salerno che non c’è più - Le Cronache Ultimora
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Lelio Schiavone e una Salerno che non c’è più

Lelio Schiavone e una Salerno che non c’è più

Alberto Cuomo

Soffermarsi ancora sulla dipartita di Lelio Schiavone, dopo che tutti i quotidiani ne hanno scritto e il nostro giornale si è intrattenuto con più di un articolo sul suo ruolo nella vita salernitana, può apparire pleonastico. E tuttavia, se si sottrae la figura del gallerista alle mielose rievocazioni di qualche scadente professorino con tanto di citazioni dei versi di Alfonso Gatto, si può mettere in rilievo il suo essere stato uno dei pochi testimoni rimasti di una Salerno ormai distrutta dai suoi amministratori recenti, dove il grigio del cemento che stringe in una morsa soffocante il centro antico è solo il segno più evidente dell’ottundimento dell’intera vita della città. Naturalmente “De mortuis nihil nisi bonum”, dei morti non si può che parlare bene o al più tacere sebbene, forse, neppure il gallerista avrebbe amato le zuccherose commemorazioni condite sovente di inesattezze. Schiavone infatti era un uomo concreto e, conoscitore dell’economia, aveva compreso che l’arte, e la cultura, sono anche prodotti di mercato con cui fare affari. Riportare la sua opera culturale a sensi maggiormente prosaici che non affondati in sdolcinate citazioni di Alfonso Gatto, a sua volta maggiormente coriaceo di come di solito si scrive di lui, ovattato nel fumo dei treni che prendeva per giungere a Salerno e ripartire, invero elettrici e senza vapori, implica parlare di Salerno, dal momento ha attraversato dal dopoguerra i mutamenti della nostra città osservandola da un punto di vista privilegiato. Un uomo concreto dunque, d’affari, come rivelava il suo abbigliamento all’inglese, sia nella sartorialità che nelle stoffe, più che da taglio napoletano, con l’immancabile gilet color panna. E non solo. Negli anni settanta era possibile vederlo a passeggio sul corso seguito immancabilmente dal suo segugio anglosassone, un bassethound, cui aveva dato nome Tommaso, chi sa in omaggio all’onorevole Biamonte. Già, perché a dispetto del suo atteggiamento dandy era comunista e frequentava i comunisti tanto da essere, diversamente dall’amico Mario Carotenuto molto legato alla chiesa e ai suoi riti, un non credente, come dimostra anche il suo funerale laico. Il basset è un cane testardo, autonomo, e quindi Schiavone si deve essere dedicato all’educazione del suo Tommaso con pazienza e passione per indurlo a stargli sempre accanto. Quella stessa pazienza e passione che lo ha legato per tutta la vita ad un certo modo d’essere dell’arte. L’arte che amava era l’arte figurativa, ovvero nella definizione della critica, l’arte della “figurazione” cui era stato introdotto da Feliciano Granati, deputato del partito comunista per due legislature tra il 53 ed il 68, anno in cui fu sconfessato dal suo partito proprio per motivi legati in qualche maniera all’arte. La moglie di Feliciano, Giulia, era infatti proprietaria di una galleria romana e da lei l’onorevole si era lasciato affascinare dall’arte, quella più vicina al proprio impegno politico. Di qui, nel 1963, l’apertura di una galleria anche a Salerno, “L’incontro”, collocata nell’edificio nuovo, in piazza del Crocefisso (arretrato rispetto alla linea di via Mercanti a seguire la volontà dell’amministrazione, su proposta del Pci, di “sventrare” il centro storico per realizzare un unico corso dal tribunale al Verdi) il cui spazio fu allestito magistralmente nel mogano, anche per conferenze, dall’architetto Roberto Visconti, a sua volta comunista. Granati era un uomo intelligente e prese con sé, quale suo segretario, il giovane Schiavone, il quale si occupava della galleria. I pittori esposti, una novità per Salerno, erano quelli legati al partito comunista, ovvero al neorealismo socialista, interni per certi versi all’ambiente milanese di Alfonso Gatto che iniziò a frequentare la galleria, Morlotti, Cassinari o, i romani Vespignani, Mafai, Cagli, nei quali il segno pittorico, come la parola nella poesia ermetica del poeta, indugiava a rinviare la relazione pure affermata con il reale per soffermarsi sul proprio autonomo valore estetico, sino a giungere all’astrattismo informale di un Turcato o al surrealismo mediterraneo di De Chirico o anche l’espressionismo critico di un Maccari. Artisti che erano lo spunto per dibattiti con scrittori noti, e fu forse questo carattere della galleria, poco commerciale, che ne indusse la fine nel 1968 lo stesso anno in cui si apriva Il Catalogo. In una intervista Schiavone riferisce che Granati aveva introdotto ne L’incontro anche l’antiquariato sì da farlo sentire a disagio. In realtà Granati aveva contratto debiti con la vendita dell’arte ancora incompresa a Salerno e, secondo alcuni, i suoi debiti furono materia di ricatto per estrometterlo dalla candidatura nel Pci. Fu anche in questa esperienza, oltre il debito culturale sempre riconosciute verso Granati, che Schiavone comprese come nel vendere l’oggetto d’arte non si potesse trascurare anche il suo valore commerciale. Di qui la relazione con professionisti di riferimento alla borghesia salernitana e con simpatie a sinistra: i dottori Della Corte e Fontana, l’architetto Visconti, e perché no i professori Filiberto Menna e Angelo Trimarco pure sostenitori di un’altra linea della ricerca artistica che a Salerno si avvaleva, per le mostre, dello spazio Einaudi, di Marcello Rumma, a un tiro di schioppo da Il Catalogo e mai criticato dal momento, da buon commerciante sapeva che è nella concorrenza a svilupparsi il mercato. L’interesse verso Lelio Schiavone all’atto della sua morte si spiega quindi perché con lui va via l’ultimo testimone di una Salerno che non c’è più, distrutta da un regime oscuro durato troppi anni, quella appunto di Gatto, Carotenuto, per una nuova Salerno in cui, perduto ogni ideale, vige la più bruta mercificazione dei suoi lembi, dove invece Schiavone era rimasto fedele alla sua idea dell’arte, ai suoi ideali politici non messi in ombra dalle necessità commerciali pure non trascurate.