
Filippo Pio Bisaccia
Tra i vicoli di Piaggine, nel cuore del Cilento ottocentesco, si dipana la storia di Giuseppe Tardio, l’avvocato brigante. Nato in una famiglia contadina, Giuseppe cresce tra ideali, povertà e ambizioni, guidato dal sogno del padre di farne un uomo di cultura e giustizia. Ma il destino lo trascina in una spirale di eventi che intrecciano ribellione, tradimenti e le ferite del Risorgimento. Attraverso gli occhi della pronipote, Anna Maria Pipolo, che scopre vecchi libri e segreti di famiglia, si ricostruisce una vicenda di orgoglio, lotte sociali e memoria, dove il passato si specchia nelle fragilità del presente. Un viaggio tra giustizia e brigantaggio, alla ricerca di un’identità familiare sepolta nel tempo. La storia è fondata sulla documentazione originale del lungo processo che l’ha riguardato, custodita all’Archivio di Stato di Salerno.
Anna Maria Pipolo, ex dirigente scolastica, cilentana di Piaggine, cosa l’ ha spinta a scrivere questo romanzo sul suo antenato?
Innanzitutto un ritratto ad olio appeso nella stanza dei miei nonni materni. Anche se ero una bambina capivo che c’era dell’indicibile, un mistero dietro a quello sguardo che pareva autoritario e triste nello stesso tempo. Intorno a lui i silenzi della famiglia, di nonni, zii e zie, di mia madre. Dicevano solo “poverino” e nient’altro. Con facce tristi e rassegnate. Poi la scoperta di una parabola triste della sua vita giovane e bella, un vanto raggiunto, dopo che era diventato avvocato di successo, nato dalla terra, e invece… tutt’altra traiettoria del destino. Non è l’intelligenza o la cultura, scrivo a un certo punto del romanzo, ma è la fortuna quello che gioca, la stella sotto cui sei nato. E il Risorgimento italiano è stato per Giuseppe Tardio una brutta stella, una ferita personale e sociale, facendogli vivere una metmarfosi interiore, esaltazioni e tragedie, di fronte a tutte le contraddizioni del periodo.
Perché nella famiglia Tardio non si parlava mai di lui?
Il silenzio aveva molti significati: compassione e affetto, dolore e tragedie vissute, sia morali, per la vergogna e i sensi di colpa, sia economiche, per le conseguenze economiche del lungo processo. Soprattutto la pena per saperlo condannato ai ferri, a soffrire in una fossa borbonica all’estremo confine del Regno. C’è stato bisogno di oltre due generazioni, per diluire e stemperare queste sensazioni dolorose, di fronte a quel che sembrava incomprensibile.
Il romanzo si basa su documenti storici?
Sì, una ricerca era già stata fatta da un professore appassionato della materia, che ne ha ricostruito le vicende storiche, ma la mia ricerca personale era quella della sua personalità, delle sue convinzioni e del suo carattere, se fossi riuscita a desumerlo dalle carte all’archivio di Stato, da tanti particolari che cercavo. A volte ho provato delle vere emozioni, quando leggevo certe sue difese scritte oppure quando ho trovato il registro di immatricolazione dopo l’arresto, N. 740 del 1870, in cui erano descritti i suoi connotati, l’altezza, gli occhi, ecc. tutte cose che non conoscevo. Ma ovviamente, si basa sulle suggestioni familiari, sui racconti tramandati nel paese tra i vecchi e soprattutto, dall’avere ricevuto come eredità da lui un libro prezioso, in cui c’è persino la sua scrittura autografa a margine dei paragrafi. Quello mi ha fatto venire voglia di conoscerlo nel profondo, perché anch’io avevo lo stesso modo di annotare i miei libri. Anche lui amava i libri, ne parla sempre, nelle sue lettere private e questo mi era sembrato un messaggio, quando mia madre me lo consegnò. Un libro superstite da riannodare con gli altri perduti. Un filo della cultura che si doveva riannodare.
Cosa ha prodotto in lei la scrittura di questo romanzo, a ripercorrere la vita del suo antenato dopo quasi due secoli?
Ho trovato molti passaggi che si rispecchiano nelle dinamiche politiche sociali e umane del presente, che infine sono sempre le stesse nei secoli. Soprattutto ho riflettuto su come sposare gli ideali col rischio della morte allora, in quel periodo, era tempra e coraggio, qualità che oggi si sono perse. Nella mia famiglia sicuramente, anzi nel Dna è rimasto qualcosa di spaventoso, l’idea di avere a che fare con le malefatte e i tribunali.