Di Salvatore Memoli
Tra le cose più difficili da fare c’é il commento delle attività giudiziarie di singoli giudici o magistrati ed organi collegiali. In primo luogo perché la nostra società ha maturato il convincimento che stare alla larga da certi ambienti é sempre un guadagno. Però quando lo fanno i giornalisti, c’é da stare male, da pensarci e meditare sulla cosa. La giustizia é malata, per vizi organizzativi e per un complesse di regole, lacci e lacciuoli, che ne impediscono il suo sano esercizio. Nessuno pensa che un giudicante o inquirente debba essere legato a schemi convenzionali tipici, uguali per tutti, ripetitivi e privi di autentica interpretazione. La giurisprudenza di ogni ordine e grado é prova di un’originalità creativa che il più delle volte consente di portare la norma il più vicino possibile alle attese dei giudicati. Le vittorie di interpretazioni che favoriscono la dignità, il ruolo e l’essenza delle parti processuali, in specialmodo di coloro che sono sottoposti all’azione penale, lasciano intravedere il volto umano delle norme e dei suoi amministratori. Non sempre, però, l’attività giudiziaria sortisce effetti condivisibili. Spesso soffoca la democrazia dei ruoli e chiude l’esercizio giudicante in ambiti assolutamente sterili, perniciosi ed incomprensibili.
A lezione di procedura, lo studente impara subito il ruolo dell’azione penale, l’obbligatorietà per il PM di promuoverla, ne capisce i suoi passaggi essenziali, ne accetta il percorso procedurale che potrebbe, anzi dovrebbe concludersi, quando ricorrono i presupposti, con un decreto di archiviazione del magistrato. Non si hanno segnali di moltiplicazioni dei decreti di archiviazione per mettere fine ad una dignitosa attività inquirente che si conclude con il convincimento dell’infondatezza di una supposta notitia criminis. I casi si contano come eccezioni. Quasi sempre il magistrato non accetta l’idea di un’archiviazione. Sembra quasi una sconfitta per lui e per il suo ufficio, per questo allarga i campi d’indagine, spazia nell’imponderabile, si spinge alla ricerca di fatti , che lasciano in piedi un impianto istruttorio con una sottile finalità accusatoria. Invece dell’archiviazione si corre, quasi sempre, verso la citazione a giudizio. Verso quella condizione in cui un soggetto diventa imputato, senza nulla poter fare, si ritrova il peso di un processo che schiaccia ed annulla ogni sua attesa, sottopone la persona alle bizzarrie di una procedura macchinosa, complessa, ridondante, che non accerta l’innocenza, s’incammina trionfalmente sulla via dell’annullamento dei diritti di una persona, caricandolo dei pesi delle procedure piuttosto che della sua liberazione.Su questa via sembrano essersi incamminati legislatori e magistratura che hanno fatto a gara negli ultimi anni a rendere il processo penale un percorso ad ostacoli che costruisce accuse, le difende fino allo sfinimento, mette sgambetti e priva la libertà ai cittadini. Sebbene i delinquenti esistano e meritano processi severi, é altrettanto logico ritenere che ci sono tanti cittadini onesti sottoposti a ingiusti giudizi. La maggiore responsabilità é del legislatore italiano che legifera troppo e male, che é incline ad ascoltare suggerimenti, da anni accoglie maggiormente le richieste di revisione di leggi e procedure da parte di settori giustizialisti e sempre meno i ripetuti moniti degli organismi nazionali, comunitari ed internazionali che sollecitano processi giusti.
Il processo penale fa paura a tutti, forse agli stessi giudici, a coloro che si rendono conto che c’é sempre meno possibilità di fare cose che tutelano il malcapitato nelle mani della giustizia. C’é un meccanicismo giudiziario che avvolge il processo rendendolo strumento di sadici pensieri che fanno soffrire chi vi é sottoposto. La ritualità processuale soffoca tutti gli spazi di accertamento reali delle condotte, passo dopo passo la procedura costruisce la mostruosità. Fin dagli atti di polizia giudiziaria ci si accorge dell’inclinazione accusatoria che non lascia spazio all’autenticità dei comportamenti umani. Il dibattimento dovrebbe essere il luogo per eccellenza dove l’assunzione della prova ammette un contraddittorio vibrante ma un istinto di conservazione naturale spinge a salvaguardare comportamenti che non evitano il gravoso peso delle accuse. Da studenti eravamo innamorati di principi che come brocardi di vita imparavamo, credendoci! In dubio pro reo, con buona pace di Giustiniano resta una massima giuridica che anche in assenza di certezza di colpevolezza non porta quasi mai un giudice ad esporsi per il riconoscimento dell’assoluzione di un colpevole piuttosto che condannare un innocente. Ci siamo abituati a processi che accertano la verità processuale e tralasciano la realtà. Il processo non é un luogo di garanzia perché da qualche parte é rimasta viva una mentalità accusatoria che non rende giustizia alla verità. Lo sanno bene gli avvocati che ogni processo é un’avventura che pesa in particolare sulla difesa. I loro comportamenti processuali sono ingabbiati in una ritualità che non ha tempo per fatti che prevedono una difesa brillante che permette di far emergere la verità. Piuttosto debbono difendersi dalle accuse che hanno costruito il processo, avendo poco tempo a disposizione per delineare la personalità dell’imputato, la sua dimensione personale, tutto ciò che offre di lui un profilo che libera dalla morsa accusatoria. Mi si dirà che il processo é molto cambiato negli ultimi anni e che le prove si costruiscono o confutano in aula. Sono cose vere in parte perché un processo é un’attività che lascia poco spazio a chi si vuole allontanare dal binario costruito fin dai primi atti istruttori. Tutto é ridondante nel processo italiano, perfino il rapporto giudici-difesa é pervaso di relazioni ipocrite e di peso diverso. L’avvocato
resta sottomesso al giudicante, per quanto bravo, professionale e brillante possa essere. Chi dirige il processo mostra di avere più frecce nella sua faretra. A lui ci si rivolge con cortesia, si chiede per piacere, si attivano meccanismi discorsivi che mirano a lucrare quell’ampia percentuale di discrezionalità che ha il giudice. Ho visto vecchi avvocati fare i damerini davanti ai banchi dei giudici, banchi che sembrano troni e atti di giustizia che diventano atti di clemenza. Per carità tutto ciò non vale sempre, ci sono anche giudici che non sono capaci di reggere l’udienza. Si contano, però! Nella quasi totalità dei casi l’oralità della trattazione é soffocata dal libero convincimento. Il maggior peso lo sopporta la difesa. Alla difesa non é consentito cedere o indebolirsi. Per affermare le sue tesi, deve essere un comunicatore eccellente che non disturba chi lo ascolta.
Si potrebbe continuare a parlare delle doglianze del processo italiano. In tempo di intelligenza artificiale, non é più consentito affidare la vita dell’imputato a margini di creatività che non hanno nulla a che fare con l’oggettività delle condotte e l’obiettività della valutazione della reale infrazione della norma.
Sono troppi i processi che si concludono con assoluzioni o con condanne che meriterebbero una maggiore puntualizzazione delle condotte ed una diversa qualità della decisione finale.