Bagno di folla al teatro Verdi di Salerno per la prima assoluta della rilettura di Antonello Mercurio del celebre intermezzo, pietra miliare dell’opera buffa napoletana. Sugli scudi gli interpreti Biagio Pizzuti, Naomi Rivieccio e il mimo Vittorio Stasi
Di Olga Chieffi
Sotto lo sguardo del Pergolesi morente che ha accolto il pubblico festante nel teatro Verdi di Salerno, e quello sornione di Gioacchino Rossini che sorveglia dal cielo ogni rappresentazione ospitata dal massimo cittadino, si è svolta la doppia replica della seconda opera scritta da Antonello Mercurio, “La serva padrona”. Dopo la “Luna nel pozzo”, una fiaba in musica che abbiamo ascoltato solo in forma privata, Antonello Mercurio si è cimentato con il più celebre degli intermezzi del periodo d’oro della tradizione partenopea “La serva padrona”, che tutti conosciamo nella partitura di Giovan Battista Pergolesi. L’opera è stata realizzata dal Conservatorio Statale di Musica “G.Martucci” di Salerno, con l’orchestra dell’istituto, ben rinforzata per la prestigiosa occasione con aggiunti di vaglia, a cominciare dal corno Maurizio Maiorino, il M° Antonio Ramous, quale primo violoncello, leggiamo ancora il nome del docente di contrabbasso M° Ottavio Gaudiano, archi esperti tra le viole come Pasquale Colabene, diretta da Massimiliano Carlini, a sostegno di interpreti d’eccezione quale il baritono Biagio Pizzuti, che canta con voce rotonda, ben intonata, fraseggia con corretta dizione e dà senso alle parole, sia in lingua che in vernacolo, il quale è già avvezzo a palcoscenici internazionali, nelle vesti di Uberto, il quale ha avuto al suo fianco due soprano, Naomi Rivieccio voce eclettica che sa dividersi tra lirica e pop jazz e la classica Colette Manciero, la Serpina pergolesiana per eccellenza, unitamente al giovane attore mimo, Vittorio Stasi, perfetto Vespone. Antonello Mercurio ha lavorato con la squadra che l’accompagna da sempre nelle sue produzioni e rassegne, Pasquale De Cristofaro in regia supportato dalla moglie Rosanna Di Palma, dietro le quinte Katja Moscato, Ernesto Pulignano, Alessandro Tedesco, il bozzetto elegante del manifesto schizzato da Enzo Lauria e il Vinile quale partner ufficiale e sponsor del progetto scolastico che ha avuto quale coordinatore il flautista Domenico Giordano. L’opera, dopo il primo quarto d’ora ci ha ricordato quelle coperte all’uncinetto patchwork che ricoprivano i lettini delle camerette degli adolescenti negli anni ’70. I recitativi del libretto, purtroppo non distribuito in sala (solo un pieghevole da leggere con la lente d’ingrandimento con gli interpetri) sono stati tradotti in napoletano da Antonio D’Alessandro, musicalmente spazianti dal recitativo secco realizzato dall’eccellente clavicembalista Francesco Aliberti, al recitativo accompagnato di tipo romantico, con inserti jazz, per trasformarsi anche in pura commedia, recitata con echi di Petito e Scarpetta. “Na mesca francesca de ‘mbruoglie e fracasse”, per dirla con un titolo di Antonio Petito, in cui le arie sono sì rimaste quelle del libretto di Gennarantonio Federico, ma rimaneggiate col metodo del patchwork, una centrifuga in cui si è passati dallo stile galante al nostro verismo, con echi wagneriani in orchestra, che cede il passo al trio jazz capeggiato da Dario Deidda al basso elettrico, con Marco De Gennaro al pianoforte e Ivano Petti alla batteria, all’interno citazioni svariatissime dalla canzonetta del ventennio “Bellezza in bicicletta”, al musical porteriano, sino a qualche passaggio evocativo delle colonne sonore dei cartoon disneyani, tra rumbette, blue notes e moderne ballades, con in agguato, dietro l’angolo, la marcia nuziale di Mendelssohn e il duetto flauto-soprano, citazione dalla scena di pazzia della Lucia di Donizetti, un po’ di Rossini, un pizzico di Puccini e Kurt Weill, fino ai saluti finali sugli echi di “Tequila”. Dalla centrifuga di questa lavatrice cosa è uscito? “’Na matassa ‘mbrugliata”, poiché se nella “Luna nel pozzo”, il metodo patchwork è finemente controllato, gli equilibri rispettati, ne’ “La serva padrona” il frenetico saltellare di secolo in secolo, di genere in genere, addirittura nella stessa aria, non ha permesso nemmeno di cesellare nitidamente i personaggi, “ingabbiati” dal dialetto napoletano e dalla stessa regia, fedelissima alla tradizione partenopea, in contrasto con la turbinosa partitura aperta ad ogni contaminazione. Sicuramente valida l’esperienza didattica e un plauso convinto alla direzione del conservatorio, che ha permesso ai ragazzi di provare fisicamente cosa significa stare nel golfo mistico, sentire la polvere e l’afrore del palcoscenico, interagire con cantanti e regista, sicuramente da ripetersi, magari con l’altra opera di Antonello Mercurio, o con titoli “semplici” di repertorio, chiaro il messaggio: l’orchestra della scuola deve presentarsi sempre così, in qualsiasi occasione, anche per i concerti sinfonici, scrupolosamente e a lungo concertata e con qualche spalla sicura in ogni sezione, in particolare tra gli ottoni e le ance e, soprattutto, abbiamo splendide e giovani voci a Salerno, che desideriamo ascoltare nella stagione lirica del teatro Verdi, quali gemme dei cast che Daniel Oren deve svecchiare senza alcuna remora.
N.B. L’articolo pubblicato a pag.31 di Le Cronache dell’ 11/11/2015 attribuito erroneamente ad Aniello Palumbo è di OLGA CHIEFFI