La Pathosophia di papa Francesco - Le Cronache Ultimora
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La Pathosophia di papa Francesco

La Pathosophia di papa Francesco

Olga Chieffi

Il termine teologia mal si adatta al pensiero e direi anche alla vita di Jorge Mario Bergoglio. Occorre piuttosto coniare un altro termine al fine di illustrare adeguatamente il suo parlare di Dio, il suo rappresentarlo, il suo essere (per riprendere la celebre definizione del Papa data da santa Caterina da Siena) “il dolce Cristo in terra”. Questo neologismo, non bello, ma a mio avviso efficace, è il seguente: teopatia. Non teo-logia, ma teo-patia. Esattamente come si parla di simpatia e di empatia, per contrassegnare il risuonare dell’emotività di fronte a un altro essere umano o a una situazione di vita, così, per il pensiero di Dio espresso da papa Francesco negli scritti e soprattutto nella vita occorre parlare di teo-patia”. Così scrive il teologo Vito Mancuso su La Stampa, definendo Franciscus, un profeta non teologo come Benedetto XVI, neppure un sapiente pastore come Giovanni Paolo II, né un intellettuale penetrante come Paolo VI, né un legislatore e un diplomatico come Pio XII. La teopathia di Francesco non è altro che la pathosophia dell’indimenticato filosofo napoletano Aldo Masullo. Il filosofo napoletano infatti, ha schizzato, nella sua opera, una figura della soggettività che, senza più infrastrutture metafisiche, resta tuttavia ancora capace non già di intendere il vero – e dunque la verità del valore – ma, più autenticamente, di patirlo, ovvero di aprirsi in questa dimensione pàtica, affettiva, sensibile, a quell’originaria con-sensualità che sola ci preserva dall’assoluto non senso dell’esistere. Siamo uomini, insomma, perché siamo fra gli uomini, anche se questo «fra» è quanto di più precario vi sia. La morte è infatti sempre la possibilità di un vivente: proviene cioè dalla vita, non dal concetto, e solo alla vita, alla vita reale, empirica, non all’essere o all’eterno può mettere un termine. Nessun nulla è abbastanza nulla – si potrebbe dire allora –, nessuna insensatezza è tanto tragica, oppure giocosa e irresponsabile per sbalzarci fuori dalle nostre vite e sottrarci al compito “umano, troppo umano” di viverne con passione la serietà. “Oggi siamo molto soli –affermava Masullo in tanti dei diversi incontri avuti in città– non nel senso che la solitudine sia un’eccezione, perché è una dimensione propria dell’essere umano, ma siamo soli perché isolati, ognuno chiuso nella propria monade, incapace di rapportarsi all’altro in modo aperto e carico d’amore. La filosofia è l’opposto di questa situazione, perché è costitutivamente dialogo”. La società è stata rovinata da una politica che nell’ accezione attuale cè unicamente ricerca del potere, a causa di una cattiva “paideia”, che ha portato ad una società dei conflitti, alla produzione di “legni storti”, per dirla con Kant, per una mancata educazione all’umanità positivamente intesa. I filosofi sono profeti e Masullo lo era, quanto lo è stato Papa Francesco. “La prima grande virtù dell’uomo è la verità (secondo alcuni filologi deriva dalla radice iranica ver che significa fiducia realtà). Se noi riusciamo ad agire in modo – diceva Aldo Masullo – da suscitare la fiducia degli altri, e al tempo stesso ad avere fiducia negli altri, come il pescivendolo che a Napoli afferma che la vongola è verace, ovvero che rappresenta la vera e onesta vongola e lo fa dire a lei stessa, forse potremo risollevarci dalla nostra condizione che sta cedendo al Nulla. L’ invito è a rompere il guscio d’isolamento, che non è materiale ma una volontaria reclusione dell’io. La passione non è la cecità di lasciarsi prendere da un’urgenza, ma pathire, cioè vivere profondamente e dare spessore alla storia, ponendo un freno al frenetico correre, in modo da fermarci a riflettere su noi stessi, poichè l’uomo è libero e vive in quanto trascende con il proprio pensiero la stessa vita immediatamente vissuta, quando pensa la Vita. Semplicemente, nell’occasione di ogni fattuale e irriducibile emozione vissuta, come lo è stata la notizia e la partecipazione alla scomparsa di Francesco, la quale entro sé e soltanto entro sé elabora il suo senso, il pensiero sfida a scoprirsi nella pienezza della sua eversiva improvvisazione. La sfida in tal caso non può nascere se non dall’interno dello sfidato. Al vivente vissuto, e a lui soltanto, tocca d’interrogarsi e in tal modo intensificare il suo senso. Questi allora gli elementi irriducibili, tanto labili, della medesima materia dei sogni e pur tanto robusti che di essi è fatta la realtà, ovvero le esplosioni del pathire, l’irrompere degli eventi, delle emozioni, siano esse il sorriso e la parola salvifica del papa, come in quella piazza San Pietro vuota, piovosa, stordente nel suo silenzio o la sua scomparsa, nel loro darsi provocheranno tutti noi a prender coscienza di sé e ad agire per il bene comune, con parole piene, intavolando sempre nuovi discorsi d’amore.