La Lupa tradita - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

La Lupa tradita

La Lupa tradita

 

Non convince la lettura della novella verghiana edulcorata e intellettuale di Guglielmo Ferro, affidata ad un’ottima compagnia, con Lina Sastri protagonista

 

Di Olga Chieffi

 Il palcoscenico del teatro delle Arti di Salerno ha ospitato, in questo week-end, la trasposizione teatrale de’ “La Lupa” di Giovanni Verga, firmata da Micaela Miano, con protagonista Lina Sastri, per la regia di Guglielmo Ferro.  L’atmosfera primitiva, l’umanità elementare, con quei mietitori incanagliti dal sole, sotto un cielo di fuoco che incendia le messi e fa divampare i sensi, quello sfondo di superstiziosa religiosità le filastrocche e le canzoni, i proverbi e le sentenze popolari, ci ha coinvolto solo all’inizio della storia, grazie ad una perfetta Clelia Piscitello, la quale ha vestito i panni di Zia Filomena, cui è stato affidato il compito di echeggiare l’antica saggezza contadina. Corali e ben interpretate sono state le presenze dei lavoranti – ragazzi e ragazze – che fanno da contorno alla entrata in scena di Lina Sastri, in cui abbiamo riconosciuto più una Carmen che la Lupa. Lei stessa afferma che la Gnà Pina è una donna che ama la libertà e che sceglie di vivere l’amore. “Che cosa di più rivoluzionario dell’amore, e del sacrificio per amore, può essere rappresentato oggi in un mondo che l’amore non sa cos’è?”. Lina Sastri ha interpretato una lupa intellettuale, una Carmen, vestendone addirittura i panni, una veste nera e uno scialle rosso sangue, danzando e cantando gli stornelli verghiani musicati da Franco Battiato con aristocratica sensualità. Non è questa la lupa di Giovanni Verga, lei si aggira da sola, come una cagnaccia e chi la incrocia si fa il segno della croce, come se volesse proteggersi, in modo superstizioso, dal suo famelico sguardo, gli uomini sono attratti fatalmente da lei, rischiando la perdizione, il peccato, perché il desiderio li attanaglia nel momento stesso in cui la vedono. Il suo aspetto erotico deve essere collegato proprio alla solitudine della donna, al suo randagismo. La lupa è una “vinta”, non “vince” come Carmen. Si dispera, mette le mani nei capelli, è fragile. Il nodo della storia si stringe nel momento in cui la Lupa decide per una soluzione radicale: prende la figlia Maricchia e finge di concederla a Nanni, ma in realtà fa in modo di essere sempre presente nella vita di quest’ uomo, di cui è innamorata. Anche Maricchia si trasforma in lupa, ma di questa trasformazione nello spettacolo della Sastri non ce ne accorgiamo. Maricchia è quasi santificata, parla in italiano. Ma la figlia della Lupa non può essere un agnello. Denuncia marito e madre per adulterio, e ancora, il parroco non entra in casa per dare l’estrema unzione a Nanni in fin di vita dopo il calcio di un mulo, poiché quella è la casa del diavolo, la casa della lupa, che viene allontanata, ma torna non appena il genero guarisce, per riattivare il suo incantesimo, non è affatto chiaro nello spettacolo di Ferro. Nanni, infatti, non sa più che fare per svincolarsi dall’incantesimo: fa recitare messe, va a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere, dice chiaramente alla suocera, la Lupa, che tutto deve finire, perché in paese ormai si sa ogni cosa di quanto avviene nella sua casa. Dirà che, se non si interrompe l’incantesimo, ammazzerà la Lupa: la minaccia è diretta, ma non sortisce l’effetto sperato. Non sappiamo se nella scena finale si consuma, all’ultimo secondo, l’atto sessuale per l’ennesima volta, o se l’atteggiamento descritto da Verga indica, la soluzione finale: la Lupa aveva in mano un mazzo di papaveri rossi appena tagliati, con i quali intendeva, ancora, sedurre l’amato Nanni. Nulla e nessuno ha potuto deviare quella donna dalla sua passione, perché non c’è scelta, non c’è alternativa, c’è solo una forza bestiale che spinge e spinge e vince. La terra pura e nuda parla in Verga e qualcosa di ancestrale e misterioso s’impone, tutto sembra avvenire sotto un cielo indifferente ed eterno. Sabato sera la rappresentazione di questo racconto avrebbe dovuto farci stringere cuore, avvampare il viso col fuoco e gelare la schiena, in un alone di misterioso silenzio, in un’atmosfera di stilizzata liturgia. Solo in questa luce il regista avrebbe potuto ricomporre quel mondo senza scampo e senza speranza, desolato e intristito, ritrovandovi lo stesso Verga, con la propria chiusa pena, la propria rinunzia, e la totale assenza d’ogni fede, che fosse capace di rinfrescare davvero le radici della vita e di lottare e vincere contro il destino.