Di Olga Chieffi
“Sol due righe di biglietto” virtuali naturalmente canterebbe Figaro, da parte mia al comunicato giuntoci dal consigliere comunale Rino Avella, presidente della IV Commissione Consiliare Permanente Sport , di annunzio del restyling del Donato Vestuti “Mi raccomando, la lapide del Grande Torino, sulla destra sotto la tribuna centrale, che lega lo stadio alla piazza” e ieri l’annunzio del restauro di quella stele dedicata a Renato Casalbore, giornalista salernitano, fondatore di Tutto Sport e agli Invincibili, tutti insieme su quell’aereo che il 4 maggio del 1949 s’infranse sulla collina di Superga. Il monito a salvaguardare quella lapide (purtroppo a Salerno alcune idee di restauro hanno fatto danno, come quelle che hanno stravolto il Conservatorio G.Martucci e il complesso di San Nicola) è venuto d’impulso, poiché è una storia che si tinge di nostalgia, retaggio di un simbolo indiscusso di uno sport romantico (non solo il calcio), in cui io, che ho praticato i cosiddetti sport “minori” atletica, canoa, canottaggio, equitazione, come tanti altri, credono ancora e difendono e che oggi non esiste più, frantumato, oscurato “dalla turba al vil guadagno intesa” – per dirla col Petrarca dei Sonetti – per potere ancora raccontare ai giovani, cercando di consegnar loro, quel modo di vita e di pensare, patrimonio tutto italiano. La prima volta che ho varcato la porta centrale dello stadio Vestuti è stato nel 1976, frequentavo la seconda elementare. Mio padre mi iscrisse ai corsi di avviamento all’atletica leggera e si fermò dinanzi a quella lapide, raccontandomi di Guglielmo Gabetto, il centravanti che giocava perfettamente in ordine con la scrima centrale fissata dalla brillantina, l’insormontabile Valerio Bacigalupo, che a dispetto della sua statura volava leggero sui tiri alti e quel Salernitana-Torino del 17 aprile del 1948, cui assistette da “imbucato” aspirante corrispondente dell’ Unità, in cui dopo il vantaggio della Salernitana, e i fischi e sfottò del pubblico cittadino, il capitano Valentino Mazzola, con un “adesso basta” scatenò la squadra e finì 4 a 1 per il Toro. Da allora, che fu anche l’anno dello scudetto, scelsi di tifare Torino. E’ una maglia quella granata, che ti porta ad abbracciare una filosofia di vita, che sempre si rifugia nella “memoria” degli Invincibili, quasi intimandoti di credere che oggi si possa ancora giocare in loro nome, invocando ed evocando il quarto d’ora granata, quel momento in cui ciò che sembra impossibile si realizza, in cui un ostacolo che pareva insormontabile viene aggirato, scalzato e superato a colpi di tenacia e perseveranza, annunciato dal suono inconfondibile di un corno da caccia, che segna la discesa in campo di una schiera di divinità, di quel 11 che solo il fato vinse. Un’altra tifoseria sa guardare oltre la traversa, verso il cielo, anche per quel rapporto particolare che noi uomini del Sud abbiamo con l’al di là, ed è quella napoletana, che porterà per sempre allo stadio sciarpe e bandiere del loro Dio, Diego Armando Maradona, il quale campeggerà, fino alla fine dei tempi, nel suo San Paolo, quale nume tutelare della squadra e della città. Ecco rivelato il senso del restauro della lapide dedicata a quella squadra, che a suo modo fu simbolo dell’inizio della ricostruzione del secondo dopoguerra, facendo rialzare la testa ad un’Italia sconfitta e che è, purtroppo, lontano anni luce dal sistema calcio di oggi, nonostante si tenti d’immaginare Andrea Belotti, il Gallo, un ragazzo dalla faccia pulita, ispirato dagli Invincibili. Rivediamolo questo calcio, anche solo per i bambini, i quali, invece di sognare il bel gioco, il gesto, la vittoria conquistata senza imboccare vie traverse, pensano già agli introiti milionari, insieme ai loro genitori, casomai riuscissero a “sfondare” in questo sport. Alt! riconquistiamo ai piedi di quella lapide l’istante dello sport, che come quello dell’arte, è l’atto, la vita stessa nella sua pienezza, o, con linguaggio nietzschiano, il dionisiaco. Il punto di riferimento filosofico è pur sempre Bergson e la sua contrapposizione tra tempo-vissuto, tempo interiore e tempo-spazio, seguendo le cui tracce, sia tra le linee del rettangolo di gioco, sul quale ogni volta, sia esso il Comunale di Torino o il cortile del palazzo popolare o il vicolo di Napoli o l’Arechi, vi si gioca la partita della vita, dove ci sono linee d’ombra, in particolare quella di porta, davanti alla quale si è attratti dall’incanto dell’esperienza universale da cui ci si attende di trovare una sensazione singolare o personale, un po’ di se stessi, finchè ci si scorge di fronte quel segno di gesso, sottile. Il tifoso, non supererà mai quella linea, nel suo sguardo, che sa guardare il cielo sopra la traversa, si leggerà per sempre la meraviglia, quell’infinito “oh!”, che è l’essenza del “puro folle”, incarnazione dell’innocenza e della purezza, lo stesso del nostro poeta Alfonso Gatto che scrisse “Il calcio è come la poesia, un gioco che vale la vita”.