Di Nicola Russomando
Il 28 maggio scorso la Corte costituzionale italiana ha pubblicato il testo della sentenza n. 68/2025 in tema di procreazione medicalmente assistita (PMA in acronimo) e di riconoscimento del figlio nato a seguito di tale tecnica. La questione di legittimità costituzionale coinvolge l’articolo 8 della legge n. 40 del 2004, che hadisciplinato per l’Italia la PMA, oggetto anche di un referendum perché in origine vi era esclusa la procreazione eterologa, oggi ammessa proprio per intervento della Consulta. L’articolo, portato ad ultimo all’esame del Giudice delle leggi, nella sua formulazione originaria, attribuiva lo status di figlio nato nel matrimonio o di figlio riconosciuto della coppia che aveva espresso la volontà di ricorrere alla PMA. Quanto poi ai requisiti soggettivi richiesti per la tecnica di PMA resta ancora valido in Italia il principio per cui “possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”. Esclusa in ogni caso la “stepchild adoption” che non ha trovato ingresso neppure nella legge Cirinnà sulle unioni civili del 2016.
La sentenza n. 68 ha affrontato e risolto favorevolmente il caso di un figlio procreato all’estero per PMA, ma nato in Italia, e registrato all’inizio come figlio della coppia omogenitoriale costituita da due donne, la prima come madre biologica, la seconda come madre intenzionale. L’intervento del Pubblico Ministero, volto alla rettifica dello stato civile del neonato, ha dato luogo alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Lucca. Dalla ricostruzione della vicenda operata in sentenza si apprende anche che la stessa coppia aveva già operato negli stessi modi, ma a ruoli invertiti, procreando precedentemente una figlia, la cui registrazione come genitori in capo alle due donne non aveva sollecitato nell’immediato l’intervento del PM.
Una classica storia di una “famiglia del cambiamento”, come l’avrebbe definita il giudice minorile salernitano Pasquale Andria, contrassegnata da tutte le aporie presenti in materia nel nostro ordinamento giuridico. Infatti, se è condivisibile l’assunto della Corte per cui il criterio prevalente nell’esame di tali questioni è “il migliore interesse del minore”, appare sorprendente l’approccio pragmatico, se non utilitaristico, seguito per la pronuncia di incostituzionalità. Di fronte all’eccezione sollevata dall’Avvocatura dello Stato, per cui è prassi giurisprudenziale consolidata estendere a questi casi l’art. 44 della legge 184/1983 circa l’adozione di minori in casi particolari, la Corte ritiene non applicabile l’istituto alla fattispecie in esame, perché “con il ricorso all’istituto dell’adozione in casi particolari, l’acquisizione dello status di figlio è fisiologicamente subordinata all’iniziativa dell’aspirante adottante e allo svolgimento di un procedimento, caratterizzato da costi, tempi e alea propri di tutti i procedimenti. Inoltre, e soprattutto, l’eventuale esito positivo del procedimento non può che spiegare effetto dal suo perfezionamento”. Costi, tempi e alea sono indicati dalla Corte costituzionale come un discrimine che impone il superamento di una procedura affermatasi nella prassi dei Tribunali italiani, all’inizio bollata dai critici come “interpretazione creativa”, poi suggellata con il crisma della legalità dalla Cassazione. C’è da dire che “l’adozione in casi particolari”, concepita ab origine per facilitare l’adozione, come in caso di minorenni affetti da handicap, laddove non fosse possibile l’affidamento preadottivo, o nell’ipotesi del minore già in vincolo familiare con l’adottante, è stata poi estesa nell’interpretazione dei giudici al partner di una coppia omosessuale di cui l’altro fosse genitore biologico. E ciò anche nei casi di maternità surrogata, almeno fino alla recente introduzione in Italia del reato universale di “gestazione per altri”.
Anche da questo rapido e sommario quadro è possibile evincere la tumultuosa evoluzione degli istituti giuridici in ambito di famiglia e di filiazione, che legittimano l’etichetta già ricordata di “famiglia del cambiamento”. La tendenza è quella a superare i rapporti di sangue per affermare quelli di “cura”, che sono, senz’altro, umanamente apprezzabili. Tuttavia, la natura esige pur sempre un rilievo, affatto secondario anche nel mondo del diritto. Un tempo era la legge ad imitare la natura, secondo la felice definizione che nel diritto romano si dava proprio dell’adozione. E l’ancoraggio dei diritti alla natura fa sì che questi rechino traccia di un sostrato oggettivo, evitando che scadano a “flebili proposizioni”, come ricordato da Benedetto XVI nel 2008 all’ONU. Oggi il desiderio, in particolare quello della genitorialità, è matrice di un nuovo diritto che pretende legittimazione dalla tutela di quello che all’inizio è l’oggetto del desiderio stesso per poi diventare, in forma umana, il soggetto del diritto: il figlio. Così nelle parole della Corte costituzionale: “L’interesse del minore consiste nel vedersi riconoscere lo stato di figlio di entrambe le figure – la madre biologica e la madre intenzionale – che abbiano assunto e condiviso l’impegno genitoriale attraverso il ricorso a tecniche di procreazione assistita. Il riconoscimento, per sua natura, opera da subito e indipendentemente dalle vicende della coppia e da eventuali mutamenti, al momento della nascita, della stessa volontà delle due donne che hanno fatto ricorso alla PMA e in particolare della madre intenzionale“. Da questo argomentare sembra di dedurre che la via del riconoscimento contestuale sia quella che metta al riparo il minore da ogni possibile ripensamento attribuendogli l’unico status di figlio oggi previsto dal novellato art. 315 del Codice civile. Comunque il ricorso alla PMA preclude, nell’impianto originario della legge 40 rivolto a coppie etero, ogni possibilità di disconoscimento del figlio. Si presume che dalla parziale incostituzionalità dell’art. 8 derivi lo stesso vincolo per il genitore intenzionale al riparo da ogni pericolo di mutevolezza nell’affermazione prioritaria di quel “fascio di diritti e di correlati doveri” riconosciuti ed imposti alla responsabilità genitoriale.





