Di Peppe Rinaldi
Se le indagini sull’universo di Franco Alfieri sono state delegate alla Guardia di Finanza c’è forse una ragione di fondo che travalica la normale turnazione tra i reparti di polizia giudiziaria e la specificità professionale dei corpi militari, al netto del rapporto fiduciario intrattenuto da ogni singolo pm: le stesse indagini, in larga parte sovrapponibili a quelle che hanno spedito in cella il presidente della Provincia, erano state già fatte nel corso di un significativo arco temporale dai carabinieri, Ros compreso. Le ultime comunicazioni finite sui tavoli della procura di Salerno e della stessa Dda risalgono al 2020/2021. Stesse aree di analisi, stessi personaggi più o meno raccomandabili, stessi prestanome, stesse procedure di captazione del consenso, stesso vortice di assunzioni nel pubblico impiego o in società miste e meno miste, stessi clan con relative infiltrazioni surrettizie nel circuito legale, stesse società e imprese gravitanti nella costellazione della famiglia Alfieri, stesse conclusioni investigative. Le conclusioni furono queste: le bocce vanno fermate, decida il dominus delle indagini, cioè il pm.
Bocce ferme
Sono state poi fermate? Evidentemente no. Perché? Questo lo sa solo il Padreterno, qui tra i mortali si può solo congetturare, a cominciare da quanto scritto su questo giornale a proposito delle possibili spiegazioni di una lunga impunità che avrebbe compromesso pezzi sparsi della locale magistratura.
Quell’imponente mole di investigazioni, alcune fatte davvero bene altre meno, fu tranciata, spezzettata, frullata: un faldone ne gemmava un altro, una finestra ne apriva una che ne apriva un’altra e poi un’altra ancora che, a sua volta, le chiudeva tutte o le lasciava socchiuse, finestra dopo finestra manco fosse un Windows giudiziario in ipnosi. Chi ha un po’ di pratica di politica e cronaca giudiziaria ha imparato come funzionano certi meccanismi e perché. Ovvio che la procura di Salerno di oggi non è come quella che abbiamo visto in questi anni, quando le porte scorrevoli tra politica e magistratura ebbero a superare la soglia della decenza minima e tutti fischiettavano allegramente o parlavano d’altro.
Per tagliare la testa al toro, a quel punto andava rifatto più o meno lo stesso percorso sulla base degli elementi attuali, che avrebbero consentito di rilanciare l’intera opera investigativa scongiurando, fin dove possibile, prescrizioni e roba del genere. Facciamo fare alla Finanza stavolta e vediamo se giunge alle stesse o se, invece, i carabinieri erano impazziti scrivendo tanta roba pesante, pesantissima. La risposta, seppur parziale, è giunta il 3 ottobre, al netto di molti cambiamenti tecnici e operativi e un rinnovato slancio inquirente volto non solo al legittimo raggiungimento di specifici obiettivi dell’ufficio ma anche al recupero di una minima credibilità dell’esercizio dell’azione penale sul territorio.
Il bubbone del Cfi
Da quanto è stato possibile apprendere e, soprattutto, capire, i gruppi di lavoro delle Fiamme Gialle di Eboli e Salerno, coordinati dalla procura, hanno tenuto conto della particolarità degli ambiti soggetti ad indagine. Tra essi ve ne sarebbe uno impegnato quasi esclusivamente sul grande tumore della pubblica amministrazione provinciale, il Consorzio farmaceutico intercomunale. Concepito anni fa quando ancora circolava qualche politico e amministratore decente e disinteressato, col tempo si è trasformato in una “sentina rei”, come gli antichi romani dicevano per indicare i “liquami di Stato”, cioè un canale di scarico dove far passare ogni tipo di operazione, finanziaria per chi lo gestiva, clientelare per chi ne aveva il governo politico. Una voragine di debiti da far tremare i polsi, nota peraltro da tempo, incarichi e consulenze come piovesse, reclutamento di personale affidato a un gruppo dirigente sensibile al danaro e forse ad altro, concorsi e mobilità farlocchi che investono l’alto e il basso del Cfi, lavoratori continuamente vessati dalla schizofrenia amministrativa, funzione di rampa per tutte le mobilità false per rottami politici raccattati nei consigli dei comuni aderenti al Consorzio, in qualche caso addirittura parenti stretti e strettissimi di sanguinari camorristi della Valle dell’Irno e della Piana del Sele (scorrere la pianta organica e farsene un’idea), insomma un macello. Il via vai che c’è stato negli ultimi mesi tra Cda e Collegio dei revisori cela molte spiegazioni su cosa sia successo, alcune delle quali già riversate negli atti di inchiesta. Materia prevalentemente per finanzieri dunque, visti gli squilibri di bilancio da incubo. Da poche ore si è appreso che al vertice del Cda hanno piazzato una persona perbene come l’avvocato Fausto Vecchio di Eboli, in un disperato tentativo forse di riverniciare la facciata, anche se la sensazione è che dal gruppo di comando attuale di Eboli, recentemente divenuto intimo di Alfieri, sia partita la nomina profittando della disgrazia del presidente della Provincia per occupare lo spazio lasciato libero. La politica è anche questo.
Se non accade nulla nel frattempo, si vedrà come andrà a finire. Sta di fatto che il cancro del Cfi pare sia in fase di estirpazione grazie al focus specifico avviato dalla procura di Salerno e dalla Guardia di Finanza. Non va dimenticata una circostanza particolare che è indicativa di come quella sensazione (certezza?) di restare impuniti continuasse a vivere anche sotto i bombardamenti. I nostri cinque lettori ricorderanno senz’altro che quando finì in manette un altro sindaco, Massimo Cariello di Eboli, in uno dei filoni di indagine che lo riguardavano era finito nella rete anche un certo Francesco Sorrentino, descritto in diverse informative di Pg e relativi atti giudiziari come uomo di fiducia di tutti i padrini politici del Cfi succedutisi negli anni. Sorrentino fu sottoposto a precise misure restrittive, non afflittive come nel caso del sindaco ebolitano naturalmente, ma fra queste v’era quella di particolari divieti nei rapporti con la Pa, per quanto temporanei. Ciò non ostante, Sorrentino, che è persona molto competente in materia di macchina amministrativa, graduatorie a scorrimento, predisposizione di atti per procedure concorsuali nel pubblico, ecc, continuava a recarsi nel comune di Capaccio, amministrato proprio da Alfieri.
L’infiltrazione surrettizia a Paestum
L’altro pezzo di indagine inquadrato in una più ampia e allargata radiografia investigativa su ipotesi di contatto tra politica e camorra, riguarda una circostanza risalente a pochi mesi fa che non poteva non dare nell’occhio. Un candidato in una lista di sostegno di Alfieri ottiene uno stupefacente successo elettorale, roba che neppure lo stesso Alfieri, se fosse stato candidato come semplice consigliere comunale, avrebbe forse sperato di ottenere in proporzione al numero di abitanti ed elettori della città. Certo, c’era stata una precedente esperienza amministrativa ma non tale da giustificare una messe di consensi tanto platealmente sproporzionata. Ma questo non significa ancora nulla, può essere che davvero quel candidato di maggioranza sia un Michelangelo della raccolta voti, un Maradona dei consensi. Ma c’è un “ma” grande quanto una casa, causato da un classico errore di valutazione: il pensare che non accada mai nulla. Poi, passa il tempo e accade, tant’è che gli investigatori stanno lavorando su rapporti, testimonianze e materiale fotografico assorbiti nel filone più complicato e insidioso di tutta la vicenda, che si annuncia lunga e tormentata. Certo, sarebbe meglio e più giusto che Alfieri affronti il tutto non da carcerato, nessuna condanna gli è stata inflitta, ma così gira questo mondo, lo si sapeva anche prima. Spiace.
Un esempio? Il venerdì che precedeva la chiusura della campagna elettorale ultima che ha visto trionfare Alfieri con percentuali nordcoreane questo candidato era in una cena elettorale in un ristorante di Agropoli di proprietà di una famiglia storica della camorra salernitana, descritta in antiche e nuove relazioni dell’Antimafia come una di quelle capaci di condizionare significativamente il voto, specie nelle aree rurali dell’agro Sele-pestano, dove insiste ancora oggi gran parte delle loro attività imprenditoriali ufficiali di scaturigine non proprio adamantina, tanto per divertirsi con gli eufemismi. Accanto al candidato e in suo esplicito sostegno c’erano tre o quattro esponenti di quella famiglia, l’ultimo dei quali è reduce da una fresca condanna per associazione mafiosa, usura e riciclaggio.