Oggi, alle ore 18,30 l’artista ritorna sul palcoscenico del teatro Verdi con lo spettacolo “Cabaret Yiddish”
Di OLGA CHIEFFI
Ritorna Moni Ovadia al teatro Verdi, in pomeridiana, alle ore 18,30 col suo amatissimo spettacolo Cabaret Yiddish. Il suo “piccolo contributo”, per un mondo migliore, da ebreo sulle tracce del profeta Isaia: «Non ne posso più dei vostri sacrifici, dei vostri incensi, del vostro genuflettervi. Ma rialzate l’oppresso, praticate la giustizia, difendete la causa dell’ orfano e della vedova». La piece è un intenso concerto-spettacolo di grande coinvolgimento, con protagonisti da una parte l’amore per la battuta, tracce poetiche, storielle e barzellette ebraiche e dall’altra i ritmi incalzanti delle sonorità e delle melodie klezmer, la bella musica che “attraversa” le genti e la cultura dall’Europa all’Est. Un’intera generazione di artisti, in particolare musicisti, che cercava una propria via verso nuove concezioni ritmiche, si lasciò affascinare, a metà dell’Ottocento, da questo popolo in diaspora, perseguitato e violentato, Un popolo costretto a sussistere nel “girello” della vita stessa, alla costante ricerca di precari rifugi. Vagabondo, può dirsi un anarchico dell’esperienza; per lui la vita è come ripetizione di un gioco. L’indefinitezza spaziale in cui si svolge il suo movimento del peregrinare, si risolve ogni volta nella totalità dell’istante, l’effimero sembra essere questo assoluto negativo, negativo ovviamente di ogni altro ancoraggio dell’esperienza. Ma il gioco del vagabondo è l’avventura, e nell’avventura tutto si decide daccapo. L’avventura riguarda l’accadere; e questo, noi, lo definiamo abitualmente l’accidentale, ciò che capita, il caso. Se l’istante che brucia il tempo lo pensiamo “infinito”, vuol dire che il destino umano resta sospeso all’aorgico, nessuna forza umana può comprenderlo in una definizione, resta infinito, sconfinato, libero, come la grandissima cultura ebraica, che è stato condannato alla diaspora, che ci ha regalato la musica klezmer. La popolazione del ghetto, privata di qualsiasi rapporto con il mondo esterno, di cibo e libertà, nelle strade, presso le riunioni dei movimenti giovanili, sul lavoro, ha trovato nella musica e nell’ironia, un modo per esprimersi, per eludere le censure, per mantenersi libera creando un mondo e un tempo che trascendesse e al contempo parlasse della realtà. Le canzoni erano frutto di creazioni originali o rielaborazioni di fonti prebelliche, attingevano alla tradizione klezmer, alla cultura ebraica dell’Europa dell’Est, accogliendo le influenze della musica zigana, e nell’arte il cerchio si chiude, si unisce e riluce. Moni Ovadia , riuscirà a coinvolgerci in pieno nel suo variopinto gioco, portandoci a smemorarci, ad ogni suono, passo e parola, in una stupefacente mescolanza, che ha darà luogo ad un profilo romanzesco, svelante la modernità di ogni luogo e di ogni tempo, con la sua debolezza e la sua forza. Sul palcoscenico ritroveremo la voce e il racconto di Moni Ovadia, il violino di Maurizio Dehò, il clarinetto di Paolo Rocca, la fisarmonica di Albert Florian Mihai e il contrabbasso di Luca Garlaschelli, i quali costruiranno un piccolo monumento alla realtà ebraica, alla sua inveterata capacità di sopravvivere all’esilio, alle marce quarantennali nei deserti, e sa che questo divertente e divertito infilzarsi di barzellette e musiche non può non implicare il sovvenire dell’orrore e dello strazio. Così la Guerra, la fame, il dolore e il sentimento dell’esilio si scavano nei volti e nei corpi emaciati dei suoi personaggi, evocati, sognati, fatti rivere dal gesto attoriale, consapevoli che si ride di quel riso che è l’unica cosa che resta dopo che sono finite le lacrime e quando il patire è diventato ormai di casa nel loro e nel nostro cuore.