L’ ambasciatore dello swing a Roma, tra i massimi esponenti del jazz classico ci regala una sua riflessione sull’annoso momento e un sorriso con l’esperienza vissuta da Louis Armstrong ai tempi della febbre spagnola
Di Giorgio Cùscito
Mi presento. Sono Giorgio Cùscito, pianista, sassofonista, e direttore d’orchestra, cioè, in questo momento: nulla di tutto questo, giacché non si suona, non si va ad ascoltare la musica, non si balla. Ci si chiederà: cosa fa allora, oggi, un musicista? In effetti non sa dove sbattere la testa. Se ha la partita iva e un certo numero di giornate contributive può richiedere un sussidio, altrimenti è ancora più dura, senza entrare troppo nei dettagli tecnici e amministrativi. Ma in ogni caso ciò che manca a un musicista in questo momento è l’elemento portante della propria vita: suonare. Un problema che in parte si risolve con l’ausilio delle nuove tecnologie web, grazie alle quali stanno avvenendo dei veri e propri miracoli di creatività. Chi non sa o non vuole usare le piattaforme telematiche, invece, condivide la propria arte con un pubblico diverso, nuovo, che magari può essere quello del vicinato. E poi ci sono quelli come me che sanno suonare solo in mezzo alla gente, agli altri musicisti, con un pubblico vero davanti che stimola ed è a sua volta stimolato, con i ballerini che volteggiano e si abbracciano sorridenti alla fine del brano. Per tutti noi insomma, indipendentemente dalla reazione di ognuno, è una situazione assolutamente nuova e irreale, impensabile come un film di fantascienza, assurda fino all’inverosimile. Ma… Ma non è la prima volta che il mondo della musica si trova in questa condizione. E se siamo veri musicisti di jazz, possiamo e dobbiamo saper individuare nel passato gli elementi che ci aiutano a proiettarci nel futuro. Louis Armstrong, per noi musicisti di jazz, è un faro, un nume tutelare. Il suono preciso della sua tromba, la prontezza dei suoi poliritmi, l’efficacia del suo swing hanno indicato la strada a chiunque abbia voluto e potuto dirsi musicista di jazz. Incredibile a dirsi, il sommo Louis continua a insegnarci qualcosa anche in quanto a pandemie. È di una settimana fa la preziosa pubblicazione da parte del Louis Armstrong House Museum di un dattiloscritto nel quale “Satchmo” – così lo chiamavano gli amici per via della sua enorme bocca a sacco – racconta la sua personale esperienza con la pandemia di spagnola del 1918. Armstrong, a quell’epoca diciassettenne ma già impegnato come musicista professionista, si ritrovò esattamente nella stessa situazione in cui siamo adesso: senza lavoro, distanze fisiche obbligate e restrizioni governative. Nel dattiloscritto spiega il suo disappunto ogni volta che il governo sembrava voler allentare le restrizioni e poi invece le rendeva ancor più stringenti. E così, uno come Louis Armstrong si decideva “obtorto collo” a saltare da un lavoro all’altro, in una New Orleans di inizio secolo che certo non doveva essere un ambiente facilissimo. E però Armstrong racconta anche un’altra cosa: aiutava parenti e amici, quasi come fosse un operatore sanitario e nella lettera si dichiara anche molto orgoglioso del lavoro fatto in questo senso. Del resto, non è una continua attività di “healing” quella del musicista di jazz? Tornando ai giorni nostri, l’attività meritoria di Armstrong trova ancora il modo di continuare: pochi giorni fa la Louis Armstrong Foundation ha deliberato un fondo speciale di un milione di dollari per i musicisti jazz di New York rimasti senza lavoro a causa delle restrizioni dovute al coronavirus. Quando uno è un grande, è un grande sempre.